Questo, Luca, non lo dovevi fare...
E il bello è che anche Mattia la pensa così.
Prima mi manda un sms per sapere se anch’io ci sarò all’incontro fissato con il suo assistente sociale. Non gli rispondo perché so già dove vuole arrivare: se ci sono io lui non viene. Quando si presenta, la visiera del cappellino che gli nasconde metà faccia ancora livida per i pugni, il volto che guarda per terra, la voce spezzata dalla recente paura, gli occhi feriti che a malapena riescono a guardarmi.

20170404 notte 3a

Silenzio nella stanza. È un grumo di umiliazione rabbiosa. Ha perso tutto ed è stato picchiato in casa sua. 18 anni buttati via. I reati, la mamma in galera per i prossimi vent’anni, il papà in Spagna che neanche sa che esiste, la famiglia piena di fratelli, zii, nipoti, sparsi tra Servizi Sociali spagnoli e comunità italiane. E nessuno che si occupa di lui. Non ha neanche i documenti Mattia. Però ha una bimba di 4 mesi che è andata via con la mamma in Perù, e chissà se torna. E forse è meglio che non torni...

In quel momento non si ricorda nemmeno che la sua misura penale è ancora in piedi per un disguido. Una relazione di aggiornamento che avrebbe chiuso il progetto ma che non è mai arrivata, e un Giudice Onorario che sa il fatto suo e che, andando dietro al suo istinto, gli getta l’ultima ancora: perché non provare a fare un progetto con loro?

Mi guarda in quella stanza Mattia, dove non vola una mosca e, con la voce dall’oltretomba, spezzata dall’emozione e dalla vergogna, va dritto al punto: tu non dovevi permetterti di...

Non lo faccio nemmeno finire.

Tu non permetterti, gli dico imperativo!


è il Mattia che sa. Che sa che dovrà finire in carcere.
Non c’è più spazio per andare avanti,
dopo quello che è successo


Sta in silenzio, non ha niente da dire. Capisce che nessuna spiegazione può reggere. Capisce che aver iniziato dalla sberla è stato un errore. O forse l’ingenua ammissione che il problema è da un’altra parte. Era da solo, dice, nessuno lo consolava dopo le botte del giorno prima, gli altri due neanche l'avevano soccorso... Di nuovo non lo faccio finire e gli dico di smetterla. Nell’attimo di silenzio successivo gli spiego. Senza che lo dovessi fare, senza che me lo chiedesse.

Ad un certo punto dovevo fermarti. Tu stavi andando fuori controllo e rischiavi di fare del male. Non ho ottenuto l’effetto sperato, ma dovevo rischiare. Non ci ho neanche pensato, ho subito capito che era la cosa giusta da fare. Andavi fermato, è partita una sberla...

Silenzio.

Ho davanti lo stesso Mattia che chiede aiuto a Mikhail. Lo stesso Mattia che riesce a non puntarmi addosso la bottiglia di vetro rotta. È il Mattia che sa. Che sa che dovrà finire in carcere. Non c’è più spazio per andare avanti, dopo quello che è successo. È la terza volta che interrompe un progetto appena avviato. E ricorda la profezia del suo assistente sociale: inizia bene ma poi, quel guizzo furbo negli occhi, ad un certo punto, lo frega. E rompe tutto. È il Mattia che vuole andare in galera, l’unico luogo in grado di proteggerlo.

20170404 notte 3

Gli occhi bassi, una tenerezza infinita, uno scricciolo di ragazzo tutto nervi e tatuaggi. Due pupille nere da indios, terrorizzate e che non riescono a non guardarti dritto negli occhi, anche se non vorrebbero. Improvvisamente lo vediamo lì, in balia del mondo, che non sa difendersi dall’alcool, dagli amici, dalle botte. Dai pensieri che lo mandano fuori giri e gli fanno perdere la misura, il confine delle cose. Quel segno netto che dice basta. Quella sberla, appunto... E la galera che, se va bene, non arriva prima di sei mesi. Non sono passate neanche dodici ore da quella notte di paura e di bottiglie spaccate contro le pareti di casa, ma è evidente che, prima di tutto, viene lui, il più debole, il più indifeso. E che non possiamo contare neanche su un arresto, che non avverrà in tempi brevi. Capiamo tutti che lo dobbiamo difendere, che lo dobbiamo proteggere. Lui si farà male. Avverto che c’è un’occasione d’oro davanti a noi. Ci sono tutte le condizioni per ribaltare la scena. Quelli che danno le sberle, sbattono fuori di casa e hanno tutte le ragioni per far fallire i percorsi, sono quelli più titolati a rilanciare e offrire un’altra occasione.

Proprio perché legittimato a chiudere, l’adulto ha, improvvisamente in mano, l’arma potente di chi tira su di forza chi sta affogando, sostituendosi un secondo prima dell’irreparabile e mostrando il volto buono del potere. Quello che sa costruire dalle macerie, che crea fiducia dal tradimento, che trasforma le chiusure in aperture.

Che non abdica alla retorica del “non cambierai mai”, tradimento dell’operatore che riversa la sua frustrazione sul più indifeso, colpevole di averlo fatto fallire nel suo progetto salvifico.

Gli diciamo che andiamo avanti, lo mettiamo in un pensionato e continuiamo a seguirlo, fin tanto che il Giudice non deciderà cosa fare. Non capisce, ci guarda con lo sguardo perso...


e io capisco che dare una sberla può essere un gesto di affetto infinito,
che dai a chi conosci di più di quello che credi,
che è un gesto di un’intimità profonda, che ti lega per sempre


Io non ho capito... ma perché voi, che avreste fatto bene a sbattermi fuori, continuate a seguirmi?! Lo guardo, io, che solo dodici ore prima gli ho dato una sberla sulla guancia già gonfia di botte e, come se fosse la cosa più banale del mondo, gli dico: per proteggerti. Perché gli adulti fanno così, è una cosa normale. Tendono sempre a proteggere i più piccoli quando pensano che siano in pericolo e si possano fare del male.

Anche se prima di adesso non lo aveva mai sentito, anche lui sa che è così. E lo capisce. È un concentrato di malinconia e nostalgia per i luoghi dell’affetto che potevano esistere ma che ha perduto, e che non torneranno mai più. Ma che lui riconosce, come in una fotografia sbiadita, del passato, e che lo fanno commuovere. E gli fanno provare rabbia contro di noi, che invece siamo diversi.

E io capisco che dare una sberla può essere un gesto di affetto infinito, che dai a chi conosci di più di quello che credi, che è un gesto di un’intimità profonda, che ti lega per sempre, che è qualcosa che non nasce dalla ragione, che è istinto puro, quell’istinto intriso di sapere, pensiero, esperienza, un gesto riflessivamente spontaneo, che non c’era né prima né dopo, ma solo in quell’istante. Che una sberla è emozione, non azione, che ha la potenza di un pugno e il calore della carezza. Che se la dai vuol dire che vuoi bene. Ma io non lo sapevo prima e non so il perché sia capitato.

E quella sberla mi legherà in qualche modo a te, Mattia, anche dopo l’ennesimo tradimento che ci riserverai qualche mese dopo questo folle tentativo di salvataggio. Neanche quello basterà a rompere quel legame.

20170404 notte 1

È questo che Mikhail non mi perdona. L’ultimo, il più piccolo, il più stronzo, quello che lui è andato a salvare, quello che ha messo a rischio la casa, non solo ha avuto un’altra occasione, ma si è anche beccato una sberla, che lui non ha mai avuto. Lui ha avuto solo botte, non sberle. E ormai non le avrà più. Mikhail non si perdona che adesso rischia di diventare grande, di essere il fratello maggiore, quello al quale si chiede di più, il meno protetto, quello che si becca meno sconti. Ormai lanciato verso una crescita irreversibile, verso un’eta adulta che solo a nominarla mette paura. Perché solo dopo che l’hai attraversata, di notte, al freddo, da solo, solo dopo saprai che tutti restano. Ma prima non sembra così, prima sembra solo perdita. Niente più protezione, niente più guida, niente più sberle. Solo una gigantesca fregatura.

No Mikhail, non sarà così. Te lo spiegherò io, con calma. Perché gli adulti proteggono anche i piccoli che diventano grandi. Provando per loro un affetto tenero e commovente, come le lacrime di mio padre che goffamente cercava di nascondere dietro quel “fai come vuoi” quando, un giorno, gli ho detto che me ne andavo. L’ho odiato per non avermi neanche accompagnato alla stazione. Ci ho messo degli anni a capire che aveva ragione.

Gli adulti proteggono i giovani adulti lasciandoli andare quando è giunto il momento, facendo finta di non vederli più ma tenendoli distrattamente sott’occhio, pronti ad intervenire in caso di emergenza. Ma tu questo, Mikhail, da qualche parte, lo sai, stai solo facendo finta di non saperlo. Sei terrorizzato di non saperlo. Tu ancora non accetti che sei stato bravo a chiamarmi quella notte e ad aiutare Mattia, così che io, se le cose fossero andate in un certo modo, avrei ancora potuto aiutarlo quel piccolo disgraziato che neanche si accorge di pestare i piedi al boss di turno e va a letto la sera a dormire ingenui sonni da sbronzo, pensando alla sua bambina di 4 mesi, e venendo invece svegliato in piena notte da una mitragliata di pugni in faccia.


e pieni di lacrime a sentire quelle parole, che neanch’io
avevo mai sentito da un Giudice, incredulo
che adesso era davvero finita, che ce l’avevi fatta


Perché quella notte Mikhail, non si sa neanche perché, ha fatto la cosa giusta. Non quella che gli conveniva di più, o che gli era più naturale o più comoda. Quella che si doveva fare. Senza calcoli, senza simpatie, senza doppi fini. Una perdita di verginità al contrario, che per sempre rende diversi e da cui non si può più tornare indietro. E che, un anno e mezzo dopo, lo porteranno a sentire il Giudice... quel Giudice che gli aveva già negato la messa alla prova, dirgli che lui è cambiato, che loro glielo vedevano in faccia, non nelle relazioni. Che aveva preso la “giusta strada” e che, nonostante i mille inciampi, riconoscevano gli sforzi fatti. E che il suo volto non era più quello di una volta: adesso il suo sguardo era più aperto e solare. I suoi occhi più luminosi, più trasparenti. E pieni di lacrime a sentire quelle parole, che neanch’io avevo mai sentito da un Giudice, incredulo che adesso era davvero finita, che ce l’avevi fatta, finalmente libero, terrorizzato di esserlo. Ora sì, la velenosa profezia del “non cambierai mai” poteva andare a farsi fottere e con lui tutti quelli che l’avevano pensata. Il vecchio Mikhail compreso.

E tutto era iniziato in quella terribile notte, dove il mondo sembrava implodere e dove gli infiniti sforzi per provare a rimettere insieme pezzi di vite frantumate, assumevano le sembianze del ridicolo: il dilettante che gioca col fuoco senza neanche saperlo.

Quella notte per Mikhail è stata lo spartiacque che ha permesso di creare un dopo, e di tracciare una linea col passato. Lui ancora non lo sapeva ma io, invece, nel raccogliere i mille cocci di quel disastro notturno, avevo capito che si era verificato un piccolo miracolo, un segno che annunciava un cambiamento irreversibile. E ci avevo creduto. Che bravo che sei stato Mikhail a crederci anche tu.

20170404 notte 6

Per Mattia invece, quella notte, ha segnato l’inizio della fine, nonostante l’estremo e visionario tentavo di proteggerlo ancora una volta. Mattia si è perso, in giro per il mondo, braccato da nemici e poliziotti, senza più una terra e senza più una direzione. Lo aspetta una galera, forse un ospedale, senz’altro una vita da strada senza futuro. O forse no...

E, in uno strano gioco di equilibri contrapposti, quelle botte che lo hanno fatto precipitare, avevano anche colpito, come un gancio secco nel mucchio, che non lascia scampo, Andreas, il traditore. Improvvisamente, in quella stanza invasa dagli assalitori, ha visto tornare i fantasmi che sperava di aver sotterrato per sempre dietro quella sua maschera di boss dalla faccia pulita, perfettino e calcolatore, a cui tutto scivola addosso: le emozioni da una parte, le performance dall’altra. Il presente che non lega insieme passato e futuro ma che, chirurgicamente, li divide. Poi, però, senza preavviso, quello stesso presente sfugge di mano e si trasforma in una scena pulp che non è la peggio che tu, Andreas, abbia mai visto, ma che riporta gelidamente il film indietro di anni. E il sangue di Mattia che non puoi più far finta di pensare che sia colpa di altri. Non puoi più separare, con un bisturi, la telefonata che hai ricevuto quella notte e che ti sei tenuto per te, e che annunciava la mattanza, con tutta la violenza successa dopo. I pugni a Mattia li hai dati tu, Andreas. E le urla soffocate dal cuscino che gli premevano sulla faccia erano il tuo presente che diceva basta, che non ne poteva più di far finta che il passato si potesse cancellare con una spugna, come non fosse esistito.

È Andreas che ci è rimasto sotto quella notte, angosciato dall’essersi reso conto di non aver provato paura dopo la telefonata, dall’aver capito che non basta annullare le emozioni per evitare di sentire gli allarmi che ci lanciano.

Ma, questa volta, l’impalcatura non ha retto e tutto è venuto giù. E dopo giorni di paura, ancora nascosta dietro il cerone che ogni giorno si ostinava a mettersi per difendersi dagli altri e da se stesso, lo ha fatto: ha denunciato gli aggressori. Ha fatto i nomi dei suoi amici, li ha riconosciuti nelle foto segnaletiche, ha dato i loro indirizzi, i numeri di telefono, tutto. Sono stati loro, lo ha scritto nero su bianco in una denuncia firmata in Questura.


e da quel momento in poi tu per me,
caro Andreas, sei un eroe. Un piccolo eroe
anonimo, di cui nessuno si ricorderà


E da quel momento in poi tu per me, caro Andreas, sei un eroe. Un piccolo eroe anonimo, di cui nessuno si ricorderà, che non sarà mai sui libri di storia, che nessuno celebrerà e che verrà condannato per questo. Dalla Giustizia che, inflessibile, ti riconoscerà le colpe, e dagli “amici” della Banda che non te lo perdoneranno. Un signor nessuno che non potrà più dormire la notte, a meno di non tirare fuori nuovamente la maschera che tutto cancella e che impedisce alla paura di avere la meglio.

Quella maschera che però, dopo solo qualche settima di silenzio irreale, improvvisamente mostra già di non reggere più quando, aprendo la tua pagina Facebook, c’è un messaggio che ti aspetta. È il capo di una volta, che ti dice che non si va via così da una banda. Che le cose adesso sono molto più bastarde di un tempo. E che se davvero vuoi andare via, prima, bisogna tornare per fare le cose come si deve...

E quando me lo scrivi, improvvisamente, di notte, mi si gela il sangue e mi sale una commozione immediata, un desiderio di protezione infinito. Tu, quello stesso stronzo che hai permesso che venissero quella notte ad ammazzare Mattia, improvvisamente adesso sento che vorrei portarti via lontano, al sicuro. Da questo mondo che non lascia via di scampo, che, ancora poco più che bambino, ti faceva andar dietro a quell’adulto potente che ti portava in Mercedes con lui e la sua banda, in giro per la riviera, negli hotel di lusso, a seminare violenza cocaina e perversione. Quell’adulto di merda a cui devi tutto perché ti proteggeva, ti faceva sentire speciale, ti voleva bene... Dio Santo, che paura, ti voleva bene veramente!

Ora ti vedo fragile come non ti avevo mai visto, con quei tuoi sorrisi e quelle tue risate spontanee e inaspettate, nervose e sincere, che denunciano quasi una vergogna infantile per essere stato toccato in qualcosa che non puoi proteggere fino in fondo e che rimane sempre un po' scoperto. E lì ci sei tu, frammenti di te, indifeso. Lì vedo quel ragazzino lasciato solo che chiedeva che qualcuno si occupasse di lui. Chiunque, purché ci fosse e facesse finta di volerti bene, di prendersi cura di te, di mostrarti la strada, di farti sentire importante con un qualsiasi futuro davanti. E purtroppo l’hai trovato. Ma era un mostro...

E mi dico: che disastro. Dio mio, che disastro.

E adesso... come facciamo?!

E mi scopro a prometterti, nel silenzio dei miei deliri incontrollati, di seguirti per sempre, di non permettere che nessuno ti faccia del male, di difenderti da tutto.

Tranne che da quella condanna a 2 anni in Corte d’Appello. Quella no, Andreas. Quella è giusta. Te le meriti tutta e, anche se può suonare banale, ti può solo fare bene ed è proprio un tuo diritto averla.

20170404 notte 11

È passato ormai un anno e mezzo da quell’episodio da Arancia Meccanica. Come ogni settimana, vado a lavorare nel condominio, ormai non più nuovo di zecca, dove tutti ti salutano e ti chiedono come stai.

Arrivando, come al solito, butto un occhio in fondo al ballatoio, dove c’è l’appartamento di Mikhail. Dopo la fine del suo percorso penale, ha chiesto di restare ancora qualche settimana in attesa della sua nuova casa. In realtà fa fatica ad andarsene, deve capire chi e cosa resterà dopo. Non riesco a non guardare verso le sue finestre al primo piano, sapendo che adesso non devo più farmi domande, finalmente in pace con quello che potevamo fare e orgoglioso di quello che lui stesso è riuscito a fare.

Sono le 8:30 di mattina, seduto al bar che c’è sulla piazzetta, mi bevo il solito caffè macchiato salutando i vicini di casa. Guardo le prime mail sul cellulare e ricevo un whatsapp. È di  Andreas, che, da un anno a questa parte, dopo la condanna, mi cerca come non faceva neanche quando lo seguivo in appartamento.

Sai dove ho passato la notte Luca?!

Gli piace fare sempre dell’ironia sul suo passato. Io sto allo scherzo ma, ogni volta, mi preparo al peggio.

Ero a fare la notte nella comunità dei ragazzi.

...quale comunità? dico io.

Quella dei ragazzi del Centro, quelli del terzo piano.


ogni volta riscoprendo che la realtà, sempre,
è più strabiliante dell’immaginazione e mai ti fa capire
fin dove può arrivare, confondendosi spesso con la follia


Dopo la condanna ti sei diplomato, hai trovato lavoro, vivi assieme alla tua ragazza e sei felice di prenderti cura di persone nate e cresciute con handicap gravissimi e che, per il tuo compleanno, ti regalano i disegni che fanno. E questa notte la cooperativa per la quale lavori, ti ha chiamato per un turno straordinario in un nuovo posto che hanno aperto da poco. All’ultimo si è ammalato il tutor notturno e solo tu eri disponibile, anche se non sarebbe il tuo compito dormire in struttura.

E quella comunità è lì, in quello stesso condominio, solo nella scala di fronte.

E così, solo pochi minuti prima che io arrivassi, poca gente in giro, l’aria frizzante del primo mattino e lo sbadiglio ancora in bocca, la stanchezza felice di chi ha finito il turno, sei uscito da quel portone, da quella casa dalla quale eri andato via per sempre, un anno e mezzo prima per andare incontro alla condanna, ai fantasmi che ritornano e ad un futuro che un’improvvisa telefonata potrebbe rovinare per sempre. E dove non avevi mai più né dormito né messo piede prima di questa notte. Di questa nuova notte.

Non ci siamo incontrati per un attimo ma che emozione vedere queste immagini, improvvisamente una vicino all’altra, come in un album di fotografie, legate da un sms, quasi un testimone che viene passato da una mano all’altra. Che emozione averti accompagnato fino a qui, avendo creduto che fosse possibile e aver sempre pensato che quell’eroe senza nome ce l’avrebbe fatta.

E ogni volta riscoprendo che la realtà, sempre, è più strabiliante dell’immaginazione e mai ti fa capire fin dove può arrivare, confondendosi spesso con la follia.

Quella follia che oggi mi fa sperare che tutto sia finito qui, finalmente risolto, finalmente in ordine e a posto. E che non squillerà mai un telefono.

E mi fa sperare che la realtà, per una volta, si dimentichi di fare se stessa e di ritornare, inflessibile, a presentare il suo conto.


Qui la prima parte