Cinque figure dell'immaginario fumettistico come altrettanti simboli di adolescenze "sul limite" tra perdita di sé e riscoperta dell'appartenenza a un gruppo.

Dylan Dog: la paura

In una società nella quale la paura è un sentimento da nascondere, una sorta di vergogna soprattutto per i maschi, gli e le adolescenti provano, oltre alle paure tipiche della loro età, anche una sorta di paura al quadrato, la paura d'aver paura, e di mostrarlo; Dylan Dog, il simpatico "indagatore dell'incubo" creato dalla fantasia di Tiziano Sclavi, è un personaggio che entra, da pauroso, nelle paure degli altri (e soprattutto nelle sue) e rivaluta la dignità questo sentimento, quasi legittimandolo. 

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La paura è allora da considerare come un sentimento fondamentale nel processo di identificazione e di crescita del ragazzo e della ragazza; e invece che ripetere con vuoti slogan l'ovvietà secondo la quale "non si educa con la paura" (slogan che è un truismo, laddove essa sia utilizzata come arma di ricatto), occorrerebbe pensare a un dispositivo educativo che comprenda in sé la paura come congegno segreto, relais fondamentale per la elaborazione simbolica della crescita dei e delle giovani.

L'adolescente prova anzitutto paura della crescita, paura di non farcela a diventare uomo o donna e paura, al contempo, di riuscirvi e di essere proiettato verso i lidi oscuri dell'età adulta; paura di restare bambino o bambina e di abbandonare troppo presto e con troppi traumi il corpo infantile; come abbiamo detto altrove, proprio a proposito di Dylan Dog,

paura del proprio corpo e delle sue metamorfosi è anche paura del tempo che passa, paura di crescere, di diventare grandi; spesso infatti il processo di crescita viene visto come omologazione, perdita della propria irripetibile originalità. (...) la propria identità rischia di collassare nel tempo, di frantumarsi in mille Ego senza coerenza e senza filo logico, diversi ogni istante.

Paura di perdersi, dunque, di frammentarsi: e le fantasie distruttive e auto-distruttive dell'età adolescenziale sono permeate di questi fantasmi: corpi squartati, squarciati, sbrindellati, che non vogliono restarsene nel limbo della morte, ma come zombi tornano sulla terra per disseminare di terrore e di pezzi di carne la città. Perdita di identità, frammentazione, dispersione del proprio ego: si tratta di una paura epocale, che proprio nel secondo dopoguerra ha caratterizzato l'Occidente; crisi del concetto di identità che non può non essere presente nelle elaborazioni di chi sta lottando per conseguire una identità, e che si vede sottrarre a priori l'oggetto per il quale sta tanto faticando.
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L'idea di avventura, di prova da affrontare, di senso del limite da superare è essenziale per una esorcizzazione della paura; ma che ne è di tale esorcizzazione quando essa non è organizzata, controllata e gestita dall'adulto? Che ne è delle possibilità di superare la paura quando questo sentimento non viene neppure legittimato?

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La paura dell'adolescente è poi paura di scoprirsi e di essere scoperto, che da bambini si esorcizzava con quello straordinario gioco che era il "nascondino"; solo che ora c'è molto di più in gioco: un corpo sessuato, con tutti i suoi nuovi ritmi e segreti, una esperienza onanistica da tenere nascosta come fosse una colpa, una scoperta di sé e degli altri che spiazza e stupisce. Paura di esibirsi e al contempo paura di restare non-visti, paura del cono di luce come dell'invisibilità; coppie di opposti che gettano l'adolescente nello sconforto di chi ritiene di essere il solo o la sola a provare paura: gli altri ragazzi, le altre fanciulle, sembrano sicuri di sé, sembrano non avere dubbi, proiettano all'esterno un'immagine di sicumera che spaventa e atterrisce; e gli adulti sembrano ormai aver fatto i conti con l'esperienza della paura, e averle voltate le spalle, disgustati, come se fosse cosa da ragazzi. E allora il gioco più bello è mettere paura, soprattutto ai più piccoli e ai più deboli; ma anche far pagare ai più grandi e ai più forti la loro ostentata sicurezza, attraverso la meccanica dell'agguato, che mobilita spesso tutte le dimensioni del macabro.

Giocare con la paura gettando sassi da un cavalcavia significa esorcizzare un sentimento che è tropo arduo mettere in scena nella vita quotidiana; perché anche se si ha paura del compito in classe o della partita di pallone occorre nascondere questo sentimento, anche nei suoi aspetti piacevoli, nelle scariche energetiche che esso provvede. Se non si può elaborare la paura in classe o in campo o davanti ai genitori, tanto vale scegliere di giocarsela fuori, in ridicole prove di virilità o in tristissime spedizioni da Ultras. Ed ecco che la paura diventa sfida, accettazione di un confronto nel quale chi ha paura perde e che comunque è l'unica possibilità di mostrare fino in fondo quanto si ami questo sentimento: "Scommetto che non hai il coraggio di..." è il modo adolescenziale di mettere in scena la paura in una società adulta che ha fatto del coraggio un affare di scommesse!

L'idea di avventura, di prova da affrontare, di senso del limite da superare è essenziale per una esorcizzazione della paura; ma che ne è di tale esorcizzazione quando essa non è organizzata, controllata e gestita dall'adulto? Che ne è delle possibilità di superare la paura quando questo sentimento non viene neppure legittimato? Eppure proprio la nostra società adulta dovrebbe imparare a fare i conti con le tremende paure epocali che dopo Auschwitz ed Hiroshima l'hanno attanagliata e ancora la squassano; siamo sicuri che gli zombie che popolano i fumetti horror siano solamente proiezioni di paure individuali e non costituiscano invece macabre anticipazioni di un mondo post-atomico?

Occorrerebbe allora architettare dispositivi educativi che legittimino il senso di paura (in tutte le sue sfumature: dal panico al terrore all'angoscia, "paura di niente", "claustrofobia sociale") a partire dalle paure adulte; sapendo però che le paure si esorcizzano affrontandole e che le paure sociali del XX secolo non si possono superare se non mettendo mano all'ingiusto sistema socioeconomico che le ha prodotte; l'adulto acquisisce la credibilità per poter aiutare l'adolescente a esorcizzare le sue paure se egli stesso sta affrontando l'aspetto pauroso del mondo in cui vive. Solo la voglia utopica di mutare un mondo pauroso ci mette in condizione di affrontare le terribili paure dei ragazzi e delle ragazze; possiamo dir loro che è normale, è giusto, è bello provare paura solamente se possiamo mostrarci ai loro occhi come impegnati a costruire un mondo in cui la paura sia solo un gioco, perché non ci sarà più nulla cui aver paura.

 Da Ubiminor Rivista, Anno 1 N.5

Raffaele Mantegazza
Dal 1999 insegna presso l'Universita' di Milano Bicocca, facolta' di Scienze della Formazione. Ha pubblicato oltre 40 libri e circa 200 articoli su riviste specializzate. Attualmente la sua cattedra universitaria e' Pedagogia Interculturale.