Da qualche mese è stato inaugurato a Milano un nuovo progetto abitativo di housing sociale. Si chiama Cenni di Cambiamento, ed è nella zona ovest di Milano, vicino allo stadio San Siro, tra il deposito ATM di via Novara e la caserma Perrucchetti.

L’intervento, che si caratterizza da un punto di vista architettonico per essere la più grande struttura realizzata con un sistema di pannelli portanti esclusivamente in legno, è il frutto di un intreccio di attori che, a vario titolo, hanno contribuito alla sua realizzazione: Polaris Real Estate, Fondazione Housing Sociale, Comune di Milano; ma anche il gestore sociale Dar-Casa e Fondazione Cariplo, che ha reso possibile l’ingresso nel progetto di 11 associazioni del privato sociale. Nei 4 corpi che caratterizzano la struttura, vi abitano 123 nuclei familiari e tra questi - come detto - ci sono anche 11 organizzazioni no profit che, in modi diversi, si occupano di abitare.

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La comunità di Cenni è caratterizzata da un mix eterogeneo di persone, appartenenti a “categorie” diverse: giovani coppie, persone più anziane, single, famiglie con bambini. Ma anche nuclei che immaginano nel futuro di comprarsi il loro appartamento e altri che lo hanno in affitto, a canone calmierato.

A differenza di altri interventi di housing sociale, Cenni si caratterizza per le sue dimensioni e per la presenza di spazi comuni, più tipici del modello “cohousing”, che facilitano la relazione, l’attitudine al contatto con l’altro e un approccio decisionale condiviso e partecipato. Un housing sociale dove gli abitanti hanno scelto di essere “cohouser”, facilitati da un vero e proprio percorso di accompagnamento sociale.

Oltre agli abitanti e alle Associazioni, le quali, per portato valoriale, si posizionano in un terreno molto simile alla filosofia perseguita dalla comunità dei residenti, è stata prevista la presenza, non di poco conto, di un foyer che ospiterà 27 giovani, studenti o lavoratori, in cerca di una prima autonomia al di fuori della famiglia.

In questo contesto variegato, così ricco di stimoli e così esposto alla sperimentazione e al rischio, si colloca la presenza di alloggi educativi per maggiorenni, spesso in uscita da percorsi comunitari e prossimi alla fuoriuscita dall’intervento di tutela dei Servizi Sociali.

Più volte ci si interroga rispetto al modello ideale per appartamenti di questo tipo. Spesso si scontrano logiche che appaiono tra loro contrapposte: la necessità di un accompagnamento protetto, l’urgenza dettata del poco tempo a disposizione, il bisogno di incontrare la realtà, la paura dei fallimenti in uscita, l’esplodere di nascoste criticità al traguardo. Non ultimo poi, il fare i conti con le strutture realmente disponibili, le quali non sempre sono pensate al servizio di un preciso modello di intervento, ma più spesso determinano il modello stesso, che deve adattarsi al tipo di struttura esistente.

Troviamo allora alloggi per l’autonomia che sono vere e proprie appendici delle comunità minori, spesso isolate dai contesti cittadini; appartamenti all’interno di agglomerati di case popolari fatiscenti, a volte fuori standard e quindi non assegnabili a bando; case in condomini residenziali “classici”, che risultano un po’ avulse rispetto al contesto rappresentato dagli inquilini, i quali poco capiscono chi vi abita.

L’altro elemento che determina il modello d’intervento è quello legato al sostegno educativo associato all’appartamento. Si può andare da supporti quasi quotidiani, con educatori che cenano ogni sera con i loro ospiti, ad interventi di tutoring leggeri e al bisogno. Alcuni si occupano del tempo libero e pensano agli ospiti del servizio come un gruppo a tutti gli effetti, da considerare un valore aggiunto, mentre altri modelli ritengono che l’intervento sia legato esclusivamente al singolo e che il gruppo sia una dimensione eventualmente spontanea e autogestita.

Ci sono poi interventi che prendono in carico il ragazzo rispetto all'intero spettro di bisogni esistenti, altri che si occupano principalmente dell’abitare, lasciando al territorio il compito di occuparsi del resto, come avviene per il cittadino comune.

Oltre a queste possibilità, descritte solo a titolo esemplificativo, esistono innumerevoli varianti e infiniti incroci tra tipologie di struttura e intensità di sostegno educativo, non riducibili ad un unico modello, evocato dal tipo di intervento: alloggi per l’autonomia.

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In questo panorama articolato e - va detto - a volte lasciato un po’ allo spontaneismo dei singoli gestori, si colloca la novità di un'organizzazione come quella di Cenni di Cambiamento: il suo essere, di fatto, un  cohousing,  introduce un elemento terzo a influenzare l’architettura dell’intervento.

Non più, quindi, un modello che si fonda solo sull’incrocio tra elementi di contesto strutturale e stile di contatto educativo, ma una sorta di sistema tridimensionale, dove le caratteristiche del gruppo degli abitanti “cohouser”, vero e proprio attore che irrompe sulla scena educativa, possono conferire un volume e un peso specifico diverso alla qualità del progetto.

Il “dispositivo cohousing” (si noti come la definizione di dispositivo pedagogico data da Riccardo Massa “funzioni” anche nel tratteggiare le connessioni del modello di cohousing: “la rete che si stabilisce tra elementi eterogenei, ...la natura del legame tra gli elementi, ...la funzione strategica cui tale insieme risponde, ...la surdeterminazione funzionale di ciascun elemento sull’altro”) si innesta nel dispositivo educativo di un servizio di appartamenti per l’autonomia. Le aree di azione del cohousing, inevitabilmente, sconfinano e invadono sia quelle relative all’abitare, sia quelle relative alla dimensione relazionale.

L’abitare inteso come spazio principale dove si svolge la scena educativa amplia i suoi confini, in modo elastico e soggettivo. L’appartamento non è più solo l’unico luogo possibile, ma, pur restando il principale, a volte cede il passo ad altri luoghi: gli spazi comuni, il cortile, l’appartamento del vicino di casa e, forse più ancora in termini evocativi e mentali, tutto il complesso nel suo insieme: gli ospiti dicono di vivere a "Cenni" e non in una via, in un appartamento o in un servizio. Frequentano i gruppi spontanei di ping pong, di calcetto, di gestione del verde, si incontrano e si salutano nel cortile, parlano al plurale facendo riferimento, in modo naturale, all'appartenenza ad un gruppo di inquilini.

I luoghi del cohousing esercitano poi un’influenza soprattutto rispetto al tema delle relazioni, intese come esperienze di apprendimento legate all’arricchimento del proprio corredo di competenze necessarie andando verso l’adultità.

Qui assistiamo ad un vero e proprio laboratorio di occasioni (come direbbe Duccio Demetrio “apparecchiare le circostanze”) determinato da uno spontaneismo “protetto”: gli abitanti “cohouser” fondano il loro progetto sulla disponibilità all’aiuto reciproco ma, al tempo stesso, non lo impongono.

In questo senso il modello (o il dispositivo) cohousing diventa una vera e propria palestra, dove la scelta degli attrezzi è definita a monte, mentre il loro utilizzo è deciso dai singoli. In termini educativi, soprattutto se analizzato rispetto ai percorsi dei neo maggiorenni verso l’emancipazione dai servizi, significa mettere l’accento e dare voce alle possibilità di cambiamento determinate dal singolo, privilegiando i percorsi di auto-efficacia. Gli ospiti di Cenni si creano le loro personali reti di appartenenza attraverso le singole attività e i rapporti informali che ne derivano, in modo del tutto originale e automatico, senza che questo sia esplicitamente un elemento dichiarato nel loro progetto educativo. Il valore aggiunto di questi processi naturali e casuali, in termini di autentica costruzione di nuove competenze e abilità dello stare nel mondo, esonda addirittura rispetto a quelli che, diventando più grandi, appaiono i sempre più stretti, datati e talvolta un po’ “petulanti” obiettivi del PEI. Come se si creassero livelli di direzione paralleli: da un lato i bisogni, gli obiettivi, le azioni e i tempi del progetto educativo relativo all’essere in carico ad un servizio di appartamenti per neo maggiorenni; dall’altro la realtà di vita in un contesto che facilita la sperimentazione senza imporre bisogni, obiettivi, azioni, tempi, ma lasciando, come motore di fondo, la spontaneità del fare e l’autenticità dell’incontro. Spontaneità e autenticità che diventano strumenti essenziali per restituite la titolarità del successo dei traguardi raggiunti al singolo e non al dispositivo educativo. In questo senso il contesto cohousing stempera l’idea (talvolta la critica) che il dispositivo educativo abbia un valore superiore al protagonismo del singolo. I due elementi (forza del dispositivo e autodeterminazione del singolo), qui sembrano integrarsi al meglio. Il progetto degli ospiti di un appartamento in cohousing si può arricchire di esperienze di apprendimento più potenti rispetto ai “classici“ progetti verso l’autonomia. Qui davvero l’educatore si trova a dover mettere in discussione il suo agire, sperimentando non solo un suo passo indietro verso quello scomparire che è il vero indice di successo della sua azione; ma ancora di più a mettere sulla stessa bilancia eventuali insuccessi rispetto ad obiettivi non raggiunti, con la contraddizione di inaspettati movimenti di autonomia all’interno della rete di accadimenti e relazioni di cohousing. Come misurare l’incapacità di gestire la casa, al limite della chiusura del servizio, con improvvise e autentiche aperture nella relazioni con i condomini, mai osservate fino a quel momento? Come tenere insieme preoccupanti passaggi a vuoto sul lavoro, con un volontariato speso nel “verde” condominiale, mai sperimentato prima, che mette in luce nuove abilità?

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L’educatore si trova nella condizione - nella necessità – di perdere sovranità e controllo sul progetto, ammettendo che il cambiamento e il successo possa avvenire anche grazie ad altre strade, a volte più efficaci e forse contrarie a quelle oggetto dalla sua giurisdizione. Strade apparentemente meno “nobili” rispetto agli altisonanti obiettivi di crescita dichiarati, spesso irraggiungibili se non, forse, solo in età adulta.

La comunità di cohouser può essere quel contesto ideale al quale passare il testimone del progetto: dalla regia dell’intervento affidata ad un'equipe ristretta di professionisti, ad una rete di cittadini, “professionisti” della partecipazione, dove le esperienze non hanno uno spartito da seguire ma dove la casualità, il rischio e l’imprevedibilità diventano risorsa. Improvvisamente l’intenzionalità eterodiretta perde quote di senso, l’esplicitazione degli obiettivi appare inutile, i tempi di realizzazione non esistono più. L’educatore si trova a convivere con un modello contrapposto al suo, cercando un filo rosso che leghi la logica di quanto fatto fino a quel momento con il mare aperto della realtà, dove giudizi, meriti, valutazioni non sempre parlano la stessa lingua di quanto proposto fino a quel momento. Un filo rosso che però è “carne viva” del lavoro educativo: porsi domande, contraddirsi, lavorare con quello che si ha, riprogettare.

Questo filo rosso è quel passaggio straordinario verso il dopo, che l’educatore deve presidiare con grandissima attenzione: spostare il centro della sua azione dal singolo individuo alla comunità. Una comunità, nel caso del cohousing, consapevole e competente, che eredita le azioni di cura e le abilità raggiunte, soprattutto “fiduciarie”, costruite negli anni di lavoro educativo e le rilancia nel mondo, di fatto andando a proiettarne gli effetti, ma senza predisporre garanzie di ultima istanza.

Per dirla con le parole di De André, l’educatore acquisisce, all’interno di un modello integrato di questo tipo, un ruolo fondamentale:

“non dovrai che restare sul ponte
e guardare le altre navi passare
le più piccole dirigile al fiume
le più grandi sanno già dove andare."

Gli ultimi passaggi, prima di abbandonare la scena educativa, sono rappresentati dal permettersi di lasciare andare i ragazzi nel mondo e dal facilitare la comunità ad accoglierli, in un’ideale chiusura del cerchio: la comunità finalmente riprende e cura quei suoi piccoli che, in un altra epoca, non è riuscita a proteggere.

L’artificiale “concentrato educativo” somministrato intensivamente da un’equipe specialistica per tentare di rianimare una situazione disperata, si trasforma in una terapia omeopatica affidata ad una naturale comunità di cura. L’autonomia, quell’ideale e impossibile traguardo, mai misurabile, non è allora un anacronistico imperativo, ma la trasformazione di una forte, privilegiata e sana dipendenza in una rete di tante piccole o grandi dipendenze mobili, connesse e interdipendenti tra di loro.

La scommessa di un laboratorio privilegiato, come quello che da qualche mese si sta sperimentando nel cohousing informale di Cenni di Cambiamento, è questo: esplorare luoghi e relazioni finalizzati a traghettare nel futuro ragazzi (...ma forse sarebbe più corretto dire eroi) un tempo feriti a morte, e consentire alla comunità di andare oltre quelle ferite, mostrando loro un vivere possibile in un’ipotesi - quasi folle e appena sussurrata - di riconciliazione col mondo.