“Lascia che il tuo io entri intimamente in comunicazione con tutte le tue parti.
Liberati, per poter avere delle possibilità
E per usare queste possibilità liberamente e creativamente.
Per sapere che qualunque cosa sia stata nel passato, è stato il meglio che potevamo fare.
Poiché essa rappresentava il meglio di ciò che sapevamo
essa rappresentava il meglio della nostra coscienza.
Man mano che la nostra conoscenza si amplia, e noi diventiamo sempre più consapevoli,
 entriamo anche più in sintonia con noi stessi.
E entrando in sintonia con noi stessi possiamo entrare in sintonia con gli altri.”
(Satir, Banmen, Gomori & Gerger, 1991)

La disabilità, e in particolare il disturbo psichiatrico, presentano una complessità di problematiche che vanno affrontate con una serie di interventi ad ampio raggio, di tipo socio-sanitario integrato. Accanto al disturbo occorre considerare la qualità di vita del paziente e dei suoi familiari, l’opportunità di vivere integralmente l’ambiente, le relazioni sociali, il lavoro, gli interessi e lo sport.

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In tale ottica, un sistema sociale territoriale di accoglienza e presa in carico della famiglia è un insieme strutturato di interventi socio educativi da realizzare nell’ambiente di vita della persona. Tali interventi hanno lo scopo di sostenere e potenziare le capacità genitoriali, di cura e di accudimento, e favorire la relazione intrafamiliare, evitando o prevenendo l’istituzionalizzazione e le forme di emarginazione e stigma.

La famiglia, dunque, è riconosciuta come risorsa, come luogo deputato alla creazione dei valori da trasmettere alle generazioni future, che va, in ogni caso, tutelata e valorizzata ogni qualvolta si scopre fragile e priva di protezione.

Partendo dalla descrizioni delle fasi del ciclo di vita di una famiglia, è possibile analizzare le differenze nei compiti di sviluppo tra i nuclei con, al loro interno, una persona con disabilità e quelli con figli sani. Le fasi principali del ciclo di vita di una famiglia sono sintetizzabili in:

  • fase iniziale breve, in cui si assiste alla formazione della coppia; si estende dalla sua costituzione alla nascita dei figli. Sono presenti specifici compiti di sviluppo quali la costruzione dell’identità della nuova coppia (prendersi cura dell’altro, negoziare i vari aspetti della vita quotidiana,…) e la necessità di creare un equilibrio tra la lealtà dovuta alla famiglia di origine e quella dovuta al coniuge [Donati, 1978] .

  • fase centrale prolungata: occupa circa 20 anni e si conclude con la copresenza di due generazioni di adulti nel nucleo familiare. Inizialmente vi è la fase della famiglia con bambini in cui i genitori devono affrontare l’evento critico della nascita del figlio. È in questa fase che la famiglia con bambino con disabilità si differenzia da quella con bambino sano, dal momento che la nascita di un bambino con disabilità rappresenta un evento imprevedibile e non scelto. Nonostante la nascita di un figlio rappresenti sempre un evento critico che obbliga a riorganizzazioni di diversa entità, la presenza del figlio con disabilità comporta un adattamento della famiglia di più ampia portata, con difficoltà che si ripercuotono anche sulle relazioni intergenerazionali con le famiglie di origine. L’evento può anche incidere sulla decisione di avere altri figli, condizionando la struttura del nucleo familiare. Nella fase successiva, quella della famiglia con giovani adolescenti, la coppia deve essere in grado di rinegoziare la relazione con i figli assumendo un atteggiamento di “protezione flessibile” [Scabini, 1995]  che tenga conto della difficoltà di conciliare gli aspetti di dipendenza ancora presenti con l’emergere del desiderio di autonomia. L’adolescenza rappresenta sempre una fase critica e, all’interno delle famiglie con figli con disabilità, comporta ulteriori sfide. Diminuiscono infatti le speranze di miglioramento [Vico, 1994] e conseguentemente la fiducia negli interventi riabilitativi; aumenta la preoccupazione rispetto al futuro del figlio; i genitori devono comunque accettare che il figlio non è più un bambino; possono emergere, soprattutto in presenza di disabilità motorie e sensoriali, problemi esistenziali di difficile gestione per i genitori. Come tutti gli adolescenti, anche la persona con disabilità è alla ricerca di spazi di autonomia spesso difficili da conquistare. È importante fornire ai genitori un supporto adeguato che favorisca la comprensione e l’accettazione del processo di differenziazione in atto per consentire al figlio la conquista di un’autonomia che tenga conto delle personali potenzialità e limitazioni. La fase della famiglia con giovane adulto, oggi prolungata perché i giovani, a causa di cambiamenti culturali ed economici, ritardano l’uscita dal nucleo d’origine, è considerata la conclusione del processo di individuazione che ha avuto origine in adolescenza. Sono presenti, per il figlio e per i genitori, compiti differenziati: il primo deve raggiungere la totale responsabilità, anche attraverso l’autonomia lavorativa; i genitori devono favorire tale processo, rinegoziare i legami adeguandoli all’uscita del figlio da casa, reinvestire energie sul rapporto di coppia e verso la generazione precedente. Nelle famiglie con figli con disabilità si prospettano compiti diversi: soprattutto in presenza di grave disabilità, difficilmente i giovani adulti raggiungono la piena autonomia e realizzazione personale. La mancata uscita del figlio da casa non consente alla coppia di reinvestire nella relazione coniugale; né di occuparsi della famiglia d’origine, a cui è più probabile vengano rivolte richieste di aiuto per la cura del figlio.

  • fase di coppia anziana o del nido vuoto: presenta eventi critici quali l’esperienza di solitudine per l’uscita di casa dell’ultimo figlio, il pensionamento, la malattia o la morte di uno dei coniugi. I compiti di sviluppo che devono essere affrontati si riferiscono quindi all’accettazione di solitudine, malattia, morte, eventi non scelti ma comunque prevedibili. Nelle famiglia con figli con disabilità la fase si presenta profondamente diversa: difficilmente viene sperimentata la situazione del nido vuoto, ed è altrettanto difficile che il figlio possa supportare i genitori in caso di malattia.

In ogni fase del ciclo di vita la famiglia si relaziona con il contesto sociale in cui è inserita. Nel momento della formazione del nuovo nucleo la coppia costruisce una rete relazionale, attraverso la condivisione delle reciproche amicizie. Per le famiglie con figli con disabilità le relazioni possono risultare ridotte, in parte per processi di marginalizzazione e autoesclusione, ma anche perché i tempi di cura amplificati rendono maggiormente problematica la difficile conciliazione del tempo dedicato al lavoro e alla famiglia.

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Le famiglie con un componente disabile: il caregiver

Se sono numerose le ricerche sulle famiglie con un figlio disabile, sembra ci sia stata una minore attenzione alle famiglie nelle quali il “paziente” è un adulto, con una disabilità mentale.

In un’indagine realizzata dalla Federazione Europea delle Associazioni delle famiglie dei malati mentali (Eufami), emergono degli spunti interessanti di riflessione sulla percezione della qualità di vita dei familiari dei pazienti psichiatrici.

Per i familiari responsabili (caregiver) dei pazienti psichiatrici la vita è dominata dal fatto che si assumono la responsabilità dei membri della famiglia affetti da malattie mentali.

I fattori principali che determinano la percezione, da parte dei familiari, della propria qualità di vita comprendono le caratteristiche personali (età media elevata, in prevalenza donne che spesso vivono da sole e non hanno un rapporto funzionale, di supporto, con un coniuge/partner), gli agenti stressanti di natura sociale (stigma, esclusione sociale), iatrogeni (pensiamo alle difficoltà di accesso al trattamento ospedaliero, in situazioni di emergenza, o a un appropriato trattamento ambulatoriale) e gli agenti stressanti situazionali.

L’indagine Eufami ha rilevato come stressor situazionali:

  • vivere aspetti esistenziali legati alla convivenza della malattia mentale in famiglia
  • gestire il rifiuto del trattamento farmacologico da parte dei pazienti
  • avere a che fare con comportamenti aberranti dei pazienti (il delirio, le allucinazioni, le condotte bizzarre, le idee persecutorie ecc.)
  • gestire il comportamento aggressivo dei pazienti
  • convivere con il timore di ricadute in episodi psicotici acuti
  • subire un carico di lavoro eccessivo (si occupano del paziente per circa 30 ore settimanali)
  • gestire i sintomi negativi (inattività dei pazienti, isolamento, ansia e frustrazione)
  • vivere in presenza di minacce e tentativi di suicidio da parte dei pazienti psichiatrici
  • subire lo sconvolgimento e il crollo della famiglia derivanti dal far fronte alla mancanza di comprensione e sostegno da parte dei familiari, parenti e amici
  • prestare attenzione ai bisogni e alle aspettative degli altri membri della famiglia
  • rimanere calmi di fronte alle tensioni, controllare le proprie reazioni
  • modificare i progetti e lo stile di vita (interrompere o ridurre occupazioni vantaggiose, carriera ecc.).

Anche l’inserimento di personale di assistenza può essere fonte di stress. Il caregiver, soprattutto se è un coniuge anziano, può manifestare forti resistenze. La difficoltà di delega è associata a sfiducia (“ad un estraneo non importa nulla di lui”), ad un pericoloso senso di onnipotenza (“come lo curo io nessuno può farlo, senza di me è perduto”), a sentimenti di inadeguatezza e di colpa (“lo abbandono, soffrirà, sono un incapace”), alla convinzione di venir meno ad un compito doveroso.

La variabilità dei comportamenti del malato, invece, aumenta nel caregiver il disorientamento e il senso di fragilità e di impotenza, con una oscillazione continua di sentimenti, dalla compassione alla rabbia, dalla disponibilità all’insofferenza, dalla pazienza infinita alla totale intolleranza. È conseguenza logica che anche i comportamenti del familiare diventino contraddittori, con ricadute negative nel lavoro di cura e con l’aumento di sensi di colpa e di disagio.

In questa fase, c’è bisogno di maggiori supporti ma è la capacità di coesione e di condivisione del sistema nell’affrontare i problemi pratici ed i bisogni emozionali a rendere tollerabile la situazione. Non meno importante è l’insight del caregiver: è la consapevolezza e non la conoscenza della specificità della malattia, infatti, che facilita la comprensione dei bisogni del malato, l’ingresso nel suo mondo e quindi la decodifica dei segnali verbali e non verbali. L’insight emotivo aumenta il senso di competenza gestionale, favorendo nel caregiver una stabilità emotiva che riduce frizioni e inutili contrapposizioni, con ricadute positive nella relazione.


La seconda parte verrà pubblicata domani