L’adolescenza è una fase di profonda ricostruzione e costruzione di relazioni sociali. Il centro della vita si sposta dalla famiglia ai coetanei, alla scuola, e a una rete di relazioni esterne più ampia. Questo ampliamento è essenziale per una crescita sana, ma espone anche i giovani a maggiori vulnerabilità emotive e sociali.

Quando tali pressioni spingono i ragazzi a ritirarsi e scegliere la solitudine invece della connessione, le conseguenze possono riflettersi direttamente sul cervello. Il fenomeno dei cosiddetti hikikomori è diventato particolarmente critico anche nel nostro paese, con casi più che raddoppiati negli ultimi anni.
Solitudine e cervello: cosa rivela la ricerca
Grazie a dati di neuroimaging e comportamentali, la neuroscienziata Caterina Stamoulis, PhD, e il suo gruppo di ricerca della Divisione di Medicina dell’Adolescente e del Giovane Adulto del Boston Children’s Hospital hanno scoperto che gli adolescenti più propensi al ritiro sociale mostrano differenze misurabili nella struttura e nel funzionamento cerebrale.
I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cerebral Cortex.
Studiare la solitudine su larga scala
Sostenuto dalla National Science Foundation, lo studio ha utilizzato i dati del progetto Adolescent Brain Cognitive Development (ABCD), che segue quasi 12.000 ragazzi in una ventina di località degli Stati Uniti, raccogliendo informazioni su cervello, comportamento e ambiente di crescita.
Il gruppo di ricerca ha analizzato risonanze magnetiche strutturali e funzionali (MRI e fMRI) di circa 3.000 adolescenti, i cui genitori avevano segnalato tendenze alla solitudine o all’isolamento sociale.
“Lo studio ABCD è unico perché combina immagini cerebrali molto dettagliate con misure comportamentali e ambientali” spiega la dottoressa Stamoulis. “Ci permette di collegare il funzionamento del cervello con il comportamento sociale e la salute mentale”.
Come il ritiro sociale rimodella il cervello
Sebbene i risultati non abbiano sorpreso i ricercatori, le analisi hanno offerto nuove prospettive di valutazione
Gli adolescenti che più si erano isolati mostravano alterazioni strutturali in aree cerebrali legate all’elaborazione sociale ed emotiva, come l’insula e la corteccia cingolata anteriore.
Dal punto di vista funzionale, le loro reti neurali risultavano meno connesse e più fragili, soprattutto nei circuiti che regolano il comportamento sociale e le decisioni.

Queste differenze non erano limitate a un’unica regione, ma si estendevano a più reti cognitive, amplificando il potenziale impatto sulla salute mentale.
“Abbiamo confermato che la solitudine non tocca solo le aree sociali del cervello, ma influenza anche altri processi cognitivi e affettivi,” afferma la dottoressa Stamoulis. “Ciò suggerisce che l’isolamento possa aumentare il rischio di disturbi mentali.”
Quando la solitudine diventa un segnale d’allarme
Per i clinici, queste scoperte hanno implicazioni dirette. Un certo grado di solitudine è normale — e persino benefico — nell’adolescenza. Tuttavia, quando il ritiro diventa persistente, può essere indice di vulnerabilità.
I professionisti della salute mentale possono aiutare le famiglie a riconoscere precocemente i segnali di rischio, spiegando anche gli effetti concreti sul cervello dei loro figli.
Identificare per tempo queste dinamiche apre la strada a strategie di prevenzione e interventi mirati per rafforzare la resilienza.
Uno sguardo al futuro
Questo studio rappresenta solo il primo passo per comprendere come la solitudine plasmi lo sviluppo cerebrale.
Poiché lo studio ABCD prevede nuove scansioni ogni due anni, il gruppo di ricercatori potrà osservare come evolvono nel tempo le differenze cerebrali tra adolescenti più o meno socialmente isolati.
“Ora possiamo seguire nel tempo lo sviluppo del cervello e vedere se certe tendenze alla solitudine lasciano un’impronta duratura” conclude la dottoressa Stamoulis.
La prossima fase di ricerca cercherà di capire quanto precocemente sia possibile intervenire per modificare questa traiettoria e proteggere la salute mentale dei giovani.





