Un carissimo amico momentaneamente costretto a sottoporsi a cure mediche talvolta invasive, l'altra sera mi confidava che, potendo scegliere, prepararsi al dolore che il corpo sta per ricevere lo rende più sopportabile. Concentrarsi sulla respirazione, distrarre i pensieri, preparare pelle, muscoli e anima alle violazioni che stanno per subire è "preferibile" al dolore che ti prende alla sprovvista, impreparato, a ventre molle.

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Perché nessuno possa dire che non sapeva e perché tutti possano attingere dalle proprie risorse per reagire

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Va detto che il mio amico è un lottatore, uno che per educazione, esperienza, indole, generosità e pudore, rasenta lo stoicismo. Non si lamenta mai, perché, mi insegna, non serve e anzi indispone chi ti è vicino. Ma il fatto che non mi lamento, tentava di spiegare agli infermieri che armeggiavano su di lui, non vuol dire che io non soffra, ma solo che, in assenza di alternative, sopporto e pure silenziosamente, per non infastidire.

Questa sua educata teoria del contenimento delle lamentele, per quanto ammirevole, non credo sia praticabile con successo e in qualsiasi occasione di malessere. Forse, in alcune situazioni, esternare il proprio disagio è inevitabile per fare inequivocabilmente sapere ai nostri interlocutori, fonte occasionale o sistematica del nostro malessere, che la misura è colma. Siano essi medici, amici, familiari, capi o governanti, manifestare in maniera diretta il nostro disappunto e la nostra prossima o già raggiunta saturazione può servire, oltre che da sano sfogo, anche per prendere e rimarcare le distanze dal male e da chi lo genera.

Una lamentela costruttiva, insomma, non un semplice ahia, ma una vera e propria denuncia, una propositiva protesta. Il mio amico, che ha combattuto e combatte infinite battaglie sociali e culturali, questo tipo di lamentela collettiva la conosce e la esercita bene e sa che nella generosa rivendicazione dei diritti la timidezza non paga e che occorre a volte ricorrere a forme di comunicazione spudorate per essere incisivi.

Penso a questa nostra discussione ora che osservo le foto inguardabili dei bimbi siriani riversi su una sabbia non diversa da quella dove altri figli meno sventurati costruiscono castelli e pomeriggi di gioia. Un esperto di comunicazione mi suggerisce che alcune immagini funzionano come i dolori improvvisi, ti possono colpire solo se non te li aspetti, se hai la guardia abbassata. E colpendoti possono generare il cambiamento. Ma solo se in quelle immagini la pietà e l'empatia, riescono a superare l'orrore che ti indurrebbe a voltare immediatamente la testa da un'altra parte.

Ci troviamo a parlare delle immagini di questi corpicini senza vita e non delle cause che hanno permesso che la vita andasse via da loro. Per suscitare compassione si cerca l'immagine perfetta, quella che ci sorprenda, che ci metta con le spalle al muro a fare i conti con i nostri privilegi e le nostre responsabilità. Che ci indigni senza fornirci l'alibi dell'impotenza.

Un dolore a sorpresa, appunto, come una prognosi, una ferita o un lutto, ma un dolore anche collettivo, che induca un incontenibile quanto costruttivo lamento e favorisca un'azione corale di riparazione. Perché nessuno possa dire che non sapeva e perché tutti possano attingere dalle proprie risorse per reagire. Non è vero che non possiamo fare niente: possiamo informarci, smascherare le menzogne razziste e interrompere il flusso osceno di odio o indifferenza.

Si possono firmare appelli e chiedere l'apertura di canali umanitari che consentano immediatamente ad altri bimbi di arrivare vivi. Si può manifestare in mille modi l'insopportabilità di questo dolore e comunicare a chi chiede il nostro consenso e i nostri voti che li avranno solo quando permetteranno a chi fugge da guerre e persecuzioni di fare ingresso nella fortezza Europa regolarmente con visto di ingresso e viaggi sicuri.

Perché dal dolore nasca finalmente una cura.

Il mio amico ha ragione, esternare il proprio dolore è inelegante e può infastidire, ma di fronte ad alcune persistenti forme di insensibilità non c'è alternativa per tentare di fare cessare il male.


precedentemente pubblicato da Repubblica Genova