Proteggere i ragazzi da pericoli e possibili danni dell’online è ai primi posti nell'agenda politica di molti Paesi. Il governo del Regno Unito ha stabilito piani per rendere le società di social media legalmente responsabili della protezione degli utenti, e i parlamentari hanno criticato le piattaforme di social media in quanto fanno affidamento sugli utenti stessi per denunciare gli abusi.

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Ha affrontato in un recente intervento questo tema la dottoressa Holly Powell-Jones, giornalista e criminologa specializzata sull’illegalità online.

Quello segnalazione di abusi e violazioni da parte degli utenti stessi, spiega l’esperta, è un problema molto serio, specialmente se le persone che incontrano materiale illegale online non lo riconoscono come tale.

Mentre lavorava come conduttrice di un telegiornale, ha collaborato alla realizzazione di un progetto di insegnamento che ha coinvolto migliaia di giovani, sulle leggi che regolano i social media e ha notato nelle loro risposte le modalità prevalenti di reazione a messaggi minacciosi, offensivi e incitanti all’odio online.

I ragazzi dicevano cose come: “Non stai facendo nulla di fisico. Cose come queste vengono dette in continuazione. Non puoi mica arrestare tutti su Internet” (da un ragazzo di 12 anni).

“Anche se è disgustoso, finché non c'è violenza fisica, va bene. Si può parlare liberamente. È solo un'opinione” (risposta di un ragazzo di 13 anni).

“Non vai certo a pensare che potresti essere arrestato ... Non succede niente sui social media, nessuno si mette nei guai, sono così tante le persone dicono cose cattive” (risposta di un ragazzo di 8 anni).

Così, nel 2014, la Powell-Jones ha avviato uno studio in collaborazione con l’università, con un gruppo di 184 partecipanti - di età compresa tra gli 11 e i 18 anni – ai quali sono stati forniti diversi esempi di post sui social media. È stato chiesto loro quanto fossero "rischiosi" per la persona che li avesse pubblicati, se facendolo, in altre parole, potesse mettersi nei guai.

Tra gli esempi (che seguivano le linee guida del Crown Prosecution Service ) c'erano: materiale razzista, omofobico e misogino, minacce di violenza, potenziali molestie e un post che suggeriva in base a delle immagini un abuso sessuale (comunemente chiamato "porno reveng").

La studiosa ha chiesto ai giovani di pensare ai diversi livelli di possibile rischio come a dei semafori: rosso per il rischio penale (coinvolgimento della polizia), arancione per il rischio civile (azioni legali di altre persone), giallo per il rischio sociale (sanzioni da scuola o famiglia) e verde quando secondo loro non c’era senza alcun rischio.

Ha anche chiesto loro perché pensassero che i post ingiuriosi potessero non costituire un rischio a livello penale. Ecco cosa ha scoperto.


Accusare la vittima

Un esempio usato è stato un post che sembrava condividere un video sessuale di una persona immaginaria chiamata "Alice" (citata in un commento con un link a un video di YouTube).

Questa sollecitazione ha creato più disaccordo di ogni altro esempio, in quanto diversi partecipanti lo hanno classificato in tutte e quattro le categorie di rischio. Fatto sorprendente, secondo la studiosa, dato che le scuole, i media e le organizzazioni non governative hanno tutti sottolineato i rischi inerenti la condivisione di immagini scabrose. È persino indicato nelle nuove linee guida per l'educazione sessuale del Ministero dell’istruzione.

Nonostante questo, alcuni ragazzi hanno argomentato che l’autore di una pubblicazione del genere "non poteva trovarsi nei guai" se Alice in primo luogo aveva accettato di realizzare il video - senza nemmeno chiedersi se potesse avere subito delle pressioni, considerazione che diversi studi rivelano essere un comune tra i giovani. Di fatto, anche se Alice aveva acconsentito a farsi riprendere, condividere il video senza il suo permesso sarebbe un atto illegale secondo due leggi diverse, a seconda che lei abbia già compiuto i 18 anni o meno.

La colpa della vittima viene usata come un modo per minimizzare la responsabilità delle persone che condividono tali contenuti online. Questo implica anche che le vittime debbano “occuparsene” da loro stesse. In effetti, i ragazzi dello studio pensavano che fosse più probabile che Alice avrebbe fatto causa all’autore privatamente, piuttosto che coinvolgere la polizia.


Difendere la libertà di parola

"Solo chiacchiere ", "sta solo scherzando" e "è solo un'opinione" erano risposte comuni ai post online presenti nello studio - anche in riferimento a post che esprimevano odio o minacce, i quali in realtà potevano portare a una condanna penale. La libertà di parola può essere erroneamente vista come un diritto generalizzato per le persone di dire tutto ciò che vogliono online. In alcuni casi, le opinioni dei ragazzi hanno riproposto argomenti di estrema destra a favore della libertà, della libertà di espressione e del diritto di offendere.

In realtà, la libertà di espressione ha sempre avuto limiti legali e il materiale che incita all'odio e alla violenza per motivi di razza, religione o orientamento sessuale è penalmente perseguibile.

Alcuni adolescenti credevano tuttavia che anche gli scherzi debbano avere i loro limiti, e la maggior parte di loro pensava che la minaccia di mettere una bomba fatta per gioco porti alla prigione.

È ironico, commenta la studiosa, che questo sia stato il post sul quale la maggior parte dei partecipanti concordava sul fatto che avrebbe portato alla prigione, dato che qualcuno è stato notoriamente assolto per un tweet del genere nel 2012.

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Tollerare l'abuso

Molti ragazzi dubitavano che ci sarebbero state gravi conseguenze per coloro che abusano dei social media - un risultato che è stato confermato da altri studi . Alcuni hanno ritenuto che la polizia non avrebbe "perso tempo" a occuparsi di cyberbullismo e di odio seminato via internet.

Altri hanno sostenuto che il contenuto incitante all’odio o minaccioso è "tollerato" sui social media, ed è tanto diffuso da essere "normale". Considerando la portata dell'abuso online contro le donne, ad esempio, potrebbero aver ragione, sottolinea sarcasticamente la Powell-Jones.

I ragazzi più piccoli erano più propensi a pensare che la polizia potesse essere coinvolta, mentre i ragazzi più grandi posizionavano i post abusanti nelle categorie di rischio più basso. È possibile che, man mano che i ragazzi crescono e passano più tempo online, vedano una quantità maggiore di materiale abusante condiviso senza conseguenze evidenti e ritengano di conseguenza che non possa essere illegale.

Questa è una pessima cosa per i giovani che potrebbero ripubblicare o condividere degli abusi, ma anche per le vittime, che potrebbero pensare che non sia necessario cercare aiuto.


Qualche cosa va?

Spesso si afferma che viviamo nella società della "post-verità " o della "post-morale", commenta l’esperta. Non c’è stata molta discussione su chi era corretto all’interno del focus group.

Nonostante la mancanza di accordo tra i ragazzi, punti di vista diversi sono stati visti come "ugualmente validi". Rispettare le argomentazioni degli altri è una cosa, ma non riuscire a distinguere la verità dalle bugie è un altro grande motivo di preoccupazione.

Ai giovani devono essere forniti gli strumenti necessari per comprendere, criticare e saper elaborare argomentazioni basate su prove attendibili.

I diritti umani universali sono un buon punto di partenza per i legislatori per cercare di raggiungere un accordo globale su ciò che sarà (o non sarà) tollerato online. Ma i giovani hanno anche bisogno di essere educati per comprendere questi diritti. Altrimenti, i siti di social media potrebbero semplicemente diventare uno spazio in cui non ci sono vittime o trasgressori riconosciuti, un luogo in cui, moralmente parlando, tutto va bene, conclude la studiosa.