Quando incontro Basma e l’assistente sociale che le è sempre stata accanto, in videochiamata cioè nell’unico modo possibile, ha un sorriso timido ma determinato.

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La Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati, realtà unica in Italia che interviene economicamente per dare sollievo a chi subisce le violenze più gravi non soltanto in ambito familiare, le ha riconosciuto un piccolo fondo per lei e i bambini e ora abbiamo voglia di guardarci in faccia, di ringraziarci reciprocamente.

Ci vuole tanta forza per interrompere la violenza. Tanta forza e un sistema di protezione che funziona, lo dico pensando a tante donne che ho incontrato e a tutte quelle che non ci sono più. In nove settimane di pandemia sono state uccise Susy (8 maggio), Marisa (5 maggio), Alessandra (19 aprile), Maria Angela (16 aprile), Viviana (6 aprile), Gina (2 aprile), Lorena (31 marzo), Rossella (19 marzo), Bruna (13 marzo), Barbara (10 marzo), Larisa (4 marzo).

Quella di Basma – non è il suo vero nome – è una storia a lieto fine. Poco più che ragazza, tre bambini, una totale dipendenza economica dal marito sposato per forza, un giorno scappa di casa e chiede aiuto. Non so se lo decide d’impulso o ci pensa da mesi, probabilmente tutte e due le cose. La caserma è a due passi dalla scuola dei suoi figli, mi viene spontaneo immaginare che, quando li accompagnava o tornava a prenderli, la guardasse come una possibilità. Ci vogliono determinate condizioni per coglierla, Basma ha già sopportato troppo ma non è ancora pronta, comunque la caserma fa parte della sua geografia e a furia di passarci davanti la considera un luogo amico, così una sera corre qui a denunciare.

I genitori danno Basma in sposa nel paese d’origine a un’età in cui le coetanee italiane si dividono tra libri di scuola e primi esperimenti d’amore e nel giro di pochi anni è madre. Con i bambini segue il marito in Italia. Cambiano diverse città secondo le opportunità di lavoro di lui ma per lei è tutto uguale, il suo compito è stare in casa, occuparsi dei figli e obbedire.

Io credo che il desiderio di autonomia e la capacità di resistenza siano insiti in lei sin dal principio, ed è straordinario come li ha covati un giorno dopo l’altro ed esercitati per piccoli passi. In tutti i posti dove vive, nonostante i divieti rigidissimi e le botte per ogni infrazione, fa amicizia con donne italiane e impara poco a poco la nostra lingua. Dopo l’ultimo trasferimento si iscrive a un corso di formazione ben decisa a trovare lavoro, i figli intanto non sono più così piccoli da avere continuamente bisogno di lei. Il marito carceriere non perde occasione di sottolineare come stanno le cose. Le violenze fisiche e sessuali sono all’ordine del giorno e quando non ha voglia di prenderla con la forza lo fa col ricatto, se mai vuole che lui faccia la spesa. Le botte toccano anche ai bambini, che oltre a vedere la mamma sottomessa vengono puniti duramente per qualsiasi marachella, e quando Basma si mette in mezzo per difenderli prende lei il resto.

L’ultimo giorno è proprio così che succede. Il piccolo vuole giocare, il papà lo picchia, il bimbo insiste, il papà non smette, Basma si interpone e lui non lo sopporta. “Solo perché vai a scuola, credi di avere dei diritti?”. La minaccia di morte, è armato. I bambini piangono terrorizzati, la figlia maggiore urla al padre che è cattivo e loro non vogliono più stare con lui. I figli devono avere ereditato il coraggio della madre.

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È allora che Basma scappa di casa e si rifugia in caserma. Anche se non ha un posto dove andare, anche se i suoi da lontano le ripetono che deve sopportare perché questo è il destino di una donna. Vorrebbe lavorare ma non ha ancora la qualifica, cosa succederà adesso?

Basma e i suoi figli si trasferiscono per qualche mese in un appartamento a indirizzo segreto gestito da un centro antiviolenza. Non è facile, i bambini devono interrompere la scuola e lei il corso di formazione professionale per il timore molto concreto che lui possa avvicinarli nel modo peggiore. Per fortuna in associazione c’è un bel gruppo di donne e anche il servizio sociale è molto attivo, insieme l’aiutano ad affrontare le prime necessità sue e dei figli e ogni gesto è una iniezione di fiducia, le insegna che non deve sentirsi in colpa, che ha fatto bene a scapparsene via e non è da sola, può farcela.

Dopo la denuncia anche il tribunale si muove rapidamente, ordina a lui di andarsene di casa e di non avvicinarsi alla moglie e ai bambini per un anno. Rivedrà i figli solo alla presenza del servizio sociale, se e quando loro se la sentiranno, e dovrà contribuire economicamente.

Basma e i bambini possono riprendere la loro vita. Al momento di rientrare in casa il piccolo piange sulla soglia paralizzato dalla paura: ha visto le scarpe del papà, è segno che deve tornare. Ci vuole molta pazienza per rassicurarlo ma intanto Basma capisce qual è la prima cosa da fare e, con l’aiuto del gruppo, si mette all’opera per migliorare la casa. Ci vogliono segni tangibili per iniziare una vita nuova, e la solidarietà è contagiosa: chi le regala un tavolo, chi un divano, qualcosa trova in un mercatino. La solidarietà è anche reciproca, perché tutti hanno qualcosa da dare: Basma apre la sua casa a una donna conosciuta in protezione, vitto e alloggio in cambio di un aiuto con i figli. Non sono connazionali, ed è bellissimo che questo non abbia alcuna importanza.

Attraverso il cellulare mi mostrano il salotto, lo ha ridipinto Basma durante la quarantena con un motivo molto particolare, in due colori, per dare luce alla casa. “Prima di andare alla polizia non avevo mai deciso niente nella mia vita”, racconta. Scegliere non è più proibito, è un piacere che si rinnova ogni giorno, una straordinaria apertura al possibile e, insieme, una responsabilità. “Quando vivevo con mio marito pensavo che non ce l’avrei mai fatta senza di lui. Grazie all’aiuto di tante persone ho capito che sono capace. I miei figli sono sereni adesso, e non ci manca niente”.

Il corso di formazione è terminato ma è subentrata un’altra proposta: la mediazione culturale. La incoraggio con molto calore, Basma ormai parla bene l’italiano e il suo esempio può essere prezioso per tante donne del suo paese, è l’esempio tangibile che un’alternativa alla violenza esiste. Ci vuole davvero tanta forza interiore e un buon sistema di protezione.


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.