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In treno per Roma mi fa compagnia “Quel che ci tiene vivi”, l’ultimo romanzo di Mariapia Veladiano. È un’autrice che conosco e apprezzo da tempo. Pagina dopo pagina sulle distrazioni del viaggio prevale il coinvolgimento, accanto e dentro ai suoi personaggi così umani e ben disegnati.

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La storia è tante storie. A raccontarla è Angeletto, un giovane avvocato in difficoltà, che cerca aiuto in una psicoanalista, Bianca, ma alla prima seduta – senza nascondere la sua fatica di vivere – rinuncia alla terapia per invitarla a uscire, cosa che diventerebbe impossibile se iniziassero un rapporto terapeutico. Bianca accetta e i due si sposano da lì a quattro mesi. All’apparenza sono poli opposti, esile credente e vegetariana lei, corpulento scettico e carnivoro lui, eppure sono accomunati da una radice di dolore di cui tengono conto in ogni momento, senza raccontarsela.

Il libro, però, non è prevalentemente una storia d’amore, oppure lo è solo se comprendiamo l’amore in molte sue forme. “Quel che ci tiene vivi” è anche e soprattutto una storia sull’infanzia, sulle infanzie, sul dolore di cui può essere costellata, sulla responsabilità degli adulti che feriscono e su come gli adulti possano invece rimarginare. È per l’appunto una storia dell’amore come riparazione. Un buon viatico per me che vado a Roma per incontrare qualcuno che di infanzie se ne intende.

Lo psichiatra Luigi Cancrini è il fondatore e tuttora presidente del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale, una delle maggiori scuole di psicoterapia in Italia, ed è un terapeuta di grande valore, impegnato nel sociale contro ogni violenza sui più deboli, oltre che uno studioso e un divulgatore. Ho cominciato ad apprezzarlo nei primi anni Novanta occupandomi di prevenzione delle dipendenze tra gli adolescenti, quando i colleghi provenienti dall’esperienza delle comunità terapeutiche mi proponevano i suoi testi come riferimento. Lui stesso in diverse occasioni ha raccontato di essere traslato dalle dipendenze alla “cura delle infanzie infelici” (un suo libro con questo titolo è pubblicato da Raffaello Cortina nel 2013) dopo aver compreso quanto le radici dell’uso devastante di droga affondassero in quei primi anni di vita

Trovare sulla sua scrivania la copia del piccolo “I sogni hanno la testa dura” mi emoziona. Lo citiamo di passaggio. Contiene frammenti di storie simili a quelle che qualsiasi operatore della tutela dell’infanzia incontra sul suo cammino.

“Il fatto è che bisognerebbe cambiare paradigma”, mi dice, commentando la retorica imperante sulla famiglia. “Bisognerebbe proprio rovesciare il discorso comune e spiegare che farsi carico della sofferenza infantile è un lavoro complesso, che può comprendere un allontanamento da casa ma è sempre nell’interesse di tutti i componenti della famiglia, ed è mirato a costruire relazioni più serene per la crescita di un bambino”.

Mi racconta di un ragazzino sui dieci anni ospitato in una delle comunità di Domus de Luna, la realtà sarda di cui è supervisore e che io ho brevemente incontrato nel recente viaggio in Sardegna.

Non riconosciuto dal padre e con una madre in grave difficoltà, il bambino è entrato in comunità insieme a lei. Dopo diversi tira e molla la madre ha lasciato definitivamente il figlio in struttura e ora i giudici stanno pensando per lui a una nuova famiglia. Il ragazzo, che ne è ben consapevole, ha scritto al magistrato per trovare ascolto. Parla del suo affetto per gli educatori della comunità – l’unico legame sicuro per metà della sua vita – e domanda come sta la madre, se si hanno notizie del padre. Immagina una famiglia affidataria e chiede che si proceda con i tempi giusti.

Storie come queste non hanno niente di facile. Il problema della mamma non è economico e non si risolverebbe con una rendita mensile. Il padre biologico, forse nemmeno sa di avere un figlio da qualche parte. Per il ragazzo crescere è una corsa in salita.

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Così è stato anche per Angeletto, figlio nato per caso da una madre quindicenne che non lo voleva e cresciuto, invisibile, con i genitori, impassibili e litigiosi, fino a quando i due hanno scelto di uccidersi con il gas di cucina. Giuditta, un’avvocata vicina di casa, ha chiesto e ottenuto l’affidamento del bambino e, a distanza di anni, per Angeletto è una seconda madre. Al suo fianco, “per trapasso d’amore”, si è appassionato al diritto, alla difesa dei diritti.

Ormai adulto, Angeletto è un avvocato di famiglia e uno dei suoi problemi a inizio carriera è tenersi stretti i clienti. Quando gli si presentano in studio, magari con i figli accanto, e spremono fiele sul coniuge da cui vogliono separarsi, o mostrano le loro ossessioni, Angeletto strizza l’occhio ai bambini, si identifica in loro, e rifiuta l’incarico o fa sì che sia il potenziale cliente ad andarsene. I ritratti di questi primi incontri sono veramente gustosi e del tutto realistici.

Lo scenario cambia quando sulla scena irrompe Salvino, un bimbo incontrato per caso nel quale il protagonista ritrova molti tratti della propria infanzia. Un bimbo invisibile agli adulti, che sa nascondersi e che misteriosamente scompare, sicché l’impegno che ora unisce Angeletto, Bianca e Giuditta sarà ritrovarne le tracce.

Nella professione, nel lavoro incessante su di sé condensato in scrittura, nella relazione con Bianca e nei dialoghi frammentati con Salvino, Angeletto si prende cura dell’infanzia, la sua e quella di altri. Può offrire quella cura per averla ricevuta.

La riparazione dopo il trauma – oltre al suicidio dei genitori, le molte violenze psicologiche subite prima di allora: un culmine è andare in bagno e vedere che la madre ha affogato nel water i gattini neonati, ma uno ancora si dibatte e lei completa il suo lavoro – è un processo interiore che non termina. Piccoli passi si compiono intorno alla tavola apparecchiata, quando una parola o un’immagine fanno riaffiorare in Angeletto un dettaglio che credeva smarrito.

Così pesante è il carico per lui da non riuscire ad ascoltare la storia di Bianca, che pure ha un passato terribile elaborato però in analisi. Per Bianca prova un amore sorpreso e incantato e lo esprime per altre vie – la cerimonia del tè, la cucina, il rispetto del lavoro di lei, la comprensione silenziosa – ma non è di minor portata ciò che riceve in cambio.

La cura che ci diamo gli uni gli altri, sembra dirci Veladiano, ci è indispensabile e ci nutre. Più ci penso più mi sembra vero, nella mia vita e in quella di altri. Non è la capacità di stare a galla – eventualmente a scapito di altri – ad assicurarci la sopravvivenza. È il riconoscimento nell’amore, quel che ci tiene vivi.

 


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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