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L’occasione è stata il convegno “Aspettando Internazionale” organizzato dal Laboratorio per la Pace dell’Università di Ferrara il 12 e 13 settembre. Nella prima serata è stato proiettato il documentario “Guerra e Pace” (2020) di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, una lunga indagine sulle immagini della guerra, e uno degli spezzoni che più mi ha colpito riguardava l’addestramento militare delle truppe d’assalto.

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Le caratteristiche indotte nelle reclute erano evidenti e, per me, ripugnanti: omologazione, spersonalizzazione, esaltazione. I comandi venivano ripetuti in modo concitato e inutile, all’evidente scopo di privare i soldati della loro lucidità e di generare nella truppa una subordinazione assoluta, un affidamento totale. I toni, i ritmi, l’aggressività insita nella voce e nella postura dell’istruttore erano un continuo incitamento a esprimere pulsioni cieche. L’ipotetico avversario non era che un bersaglio da abbattere a suon di scariche adrenaliniche ben armate.

Quello che a me colpiva ancor più della reificazione del nemico, era la disumanizzazione del soldato. Che il nemico perda i connotati di persona non mi sorprende; mai mi era stato tanto chiaro come lo stesso accada a chi ai “nostri”, a chi ci difende da quel nemico e si suppone stia dalla parte giusta. “Abbiamo il diritto di non diventare assassini”, commentava Daniele Lugli in momenti come questo. Un diritto che poi è il fulcro dell’obiezione di coscienza.

Per questo, quando nella seconda giornata di convegno, dedicata a “Pace e pacifismo: un’agenda per il mondo”, sono intervenuta per parlare di “Esperimenti di nonviolenza nei contesti educativi”, mi è venuto spontaneo ricondurre quegli esperimenti all’esatto opposto dell’addestramento militare. Certo sarebbe possibile immaginare un’educazione contraria nei contenuti ma in qualche modo assimilata nelle metodologie: soldatini della pace alfabetizzati per dire e fare tutti le stesse cose, propagandare le parole d’ordine di pace e nonviolenza con toni persuasivi indipendentemente da quanto le abbiano comprese. Se però crediamo che la scelta dei mezzi pregiudichi il fine, non ci possiamo accontentare di così poco. 

Sperimentare la nonviolenza nei contesti educativi, per ciò che ho conosciuto nella scuola e al di fuori di essa, è radicalmente altro. È far emergere le peculiarità di ciascuno. Nutrire la conoscenza e seminare dubbi. Sperimentare razionalità ed empatia insieme. Conservare in capo a ognuno la possibilità di formarsi un proprio convincimento, avendo cura a che sia fondato, e rispettare quel convincimento anche quando non ricalca l’obiettivo iniziale.

Educare così è rischioso, forse non serve per i grandi numeri, ma va più in profondità. Non c’è relazione educativa senza riconoscimento dell’altro. “La mia nascita è quando dico un tu”, torna a dirci Aldo Capitini, e in quell’aprirsi alla relazione c’è forse il nocciolo di una nonviolenza necessaria. Stimolarlo è tra i compiti dell’educatore, partendo da se stesso. Ogni adulto che si relaziona ai piccoli è per loro un educatore perfino quando non lo vuole, per il solo fatto di essere “grande” e quindi esempio di come si può vivere. Interprete, con il suo sguardo, del caos del mondo.

Se penso alle forme che l’educazione alla pace assume nelle scuole che ho conosciuto, individuo alcune ricorrenze insoddisfacenti. Si celebrano gli anniversari che hanno la fortuna di ricadere nell’anno scolastico – tipicamente il 27 gennaio, Giornata della memoria – o si programmano lezioni mirate per parlare di alcune figure storiche, ed è già meglio se accanto ai generali e agli imperatori si diffondono le figure di Gandhi o di Luther King, ma fare “l’ora di nonviolenza” e tenere le cose come stanno quanto può interessarci?

Vengono poi gli interventi emergenziali dopo un fattaccio. Un ragazzo, una ragazza commette una scorrettezza o un gesto violento, compie una grave trasgressione alle regole, e gli adulti devono reagire. Nei consigli di classe straordinari gli insegnanti si dividono, non in parti uguali, tra i molto compresi nella situazione (e, questi, tra chi invoca il dialogo e chi la punizione) e coloro che, per le più svariate ragioni, tutto avrebbero desiderato tranne una riunione fuori programma.

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Volendo provare a tratteggiare quelli che io considero esperimenti di nonviolenza in educazione, riconosco alcune direzioni di lavoro.

La prima, la più ambiziosa e di lungo periodo, richiede di interrogarsi sulla violenza strutturale e culturale insita nei contesti educativi per provare a ridurla. La violenza strutturale, ci insegna Johan Galtung, risiede nel modo in cui le cose stanno. Comprende diseguaglianze, discriminazioni, privilegi, sottrazione di risorse rispetto all’obiettivo e conseguente obbligo di scegliere come impegnarle, a favore e a discapito di chi.

La violenza culturale è, invece, ciò che camuffa la violenza strutturale e ci aiuta a digerirla come legittima, come giusta e fondata. Se cerchiamo queste categorie nel modo in cui la scuola è fatta, o nel modo in cui la relazione educativa si costituisce anche fuori dalle aule; se proviamo a rintracciarle nelle Caivano d’Italia, nella dispersione scolastica, nella povertà educativa dei territori più deprivati, certamente ritroviamo fattori dai quali partire per un’azione di cambiamento.

Ma, appunto, questi sono i progetti più ambiziosi e di lungo periodo, perché le violenze strutturali determinano, accanto a persone in svantaggio, altre che tutto sommato vivono bene la propria condizione e non vorrebbero cambiarla.

Un primo modo per reagire – ma è già una seconda direzione di lavoro, più alla portata del singolo educatore – è sviluppare relazioni improntate a un approccio nonviolento. Genitori, insegnanti, allenatori, educatori scelgono ogni giorno in che modo porsi con i ragazzi, singolarmente o in gruppo. “L’apertura all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo” dei ragazzi e delle ragazze è una tensione non facile e non priva di contraddizioni ed errori, ma già tenerla a mente e farne una pista di lavoro è un buon modo per indirizzare il proprio agire.

Un passaggio successivo, a mio avviso, è portare attenzione alla violenza che i giovani sperimentano per affrontarla insieme a loro. Insieme, e non contro di loro, né ritenendoli gli unici responsabili. Guardare in faccia la violenza che i bambini o i giovani vivono nelle loro relazioni scolastiche, familiari, amicali e di coppia, reali o virtuali che siano. Prenderne atto insieme a loro e farsela raccontare, aiutarli a riconoscerla e a leggerla, a vederne l’impatto sulla vita propria e degli altri per prenderne le distanze.

Anche i giovanissimi possono decidere di non collaborare, obiettare appunto. Scegliere di non trasmettere quel messaggio, di non ridere a quell’offesa, di non unirsi a quella violenza. Come di denunciare quel sopruso, di appoggiare il compagno in difficoltà, di stare accanto a chi ha subito violenza.

Se lavoriamo in questa direzione, anche “l’ora di nonviolenza” spesa per parlare di Gandhi o di Luther King non sarà una lezione teorica sommata alle altre, ma la conoscenza di maestri che hanno intrapreso il cammino prima di noi, tracciando una strada perché altri potessero proseguirla.

 


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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