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Con il pensiero strabico ai diritti dei bambini e alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, mi viene spontaneo riprendere gli appunti di qualche giorno fa.

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Ero in riunione a Roma presso l’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, nel gruppo di lavoro che si interroga sugli aiuti necessari per gli orfani di femminicidio. Ne faccio parte a nome della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati, una delle poche realtà in Italia a intervenire fattivamente con un sostegno economico ai bambini e a chi li accoglie, mentre ancora in Italia si aspettano i decreti attuativi della legge n. 4/2018 “Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici” e l’attivazione del fondo ad essa collegato.

L’Emilia Romagna interviene una tantum attraverso la Fondazione, che si occupa di tutte le vittime di gravi violenze e non soltanto di genere, né esclusivamente di questi orfani così speciali. Un po’ di più e un po’ di meno fa il Lazio, dove la Regione ha scelto di non occuparsi di tutte le vittime ma solo di questi bambini in particolare e rinnova ogni anno un fondo specifico per assisterli economicamente: 10mila Euro il primo anno, 5mila i successivi fino al ventinovesimo anno di età.

Nel resto d’Italia il gruppo non ha rilevato iniziative analoghe e strutturate. Chi ha la sfortuna di perdere la mamma per mano del papà deve sperare di appartenere a un contesto familiare adeguato, e di incontrare servizi in grado di rispondere alle sue esigenze.

Potrà sembrare meschino questo concentrarsi sulle questioni economiche ma anche i progetti di aiuto hanno un valore economico. Costa a chi accoglie i bambini, nella maggior parte dei casi familiari del ramo materno, crescerli ogni giorno, per molti cercare una casa più grande perché l’ambiente sia adeguato a tutti i membri della famiglia diventata improvvisamente più numerosa, o ridurre l’orario lavorativo perché i piccoli hanno bisogno di cura, o accettare che nella propria casa incontrino estranei, per quanto professionali, come possono esserlo gli educatori o gli assistenti sociali in visita domiciliare. Costa assicurare un sostegno psicologico ai piccoli e a sé, in relazione al lutto violentissimo di cui si è vittima e al quale non si ha quasi il tempo di pensare, tanti sono gli impegni che ha generato.

Dalle prime rilevazioni effettuate nel gruppo – ma ancor prima e in modo più approfondito dal progetto europeo di ricerca Switch-Off coordinato da Anna Costanza Baldry, docente all’Università di Napoli, da cui derivano le prime linee guida per l’intervento e il testo “Orfani speciali”, Franco Angeli 2017 – il panorama è sconfortante sotto ogni profilo. Per la solitudine dei bambini e delle famiglie, per la formazione insufficiente di tutti gli operatori (dall’assistente sociale al giudice, dall’educatore all’insegnante) e, mi permetto di aggiungere, per le resistenze naturali e legittime a maneggiare il dolore, che non hanno a che fare soltanto con la formazione. Intanto per le vittime i dettagli diventano macigni se, come è successo, sei costretto a rientrare nella casa dove tutto è successo e tocca a te ripulire il sangue di tua madre.

Ho citato poc’anzi Anna Costanza Baldry, la criminologa prematuramente scomparsa che ha dedicato tanto della sua vita al contrasto della violenza su donne e bambini. A lei si deve un impegno in profondità per indagare il fenomeno della violenza, formare gli operatori che proteggono le donne e i bambini, offrire loro strumenti di intervento. Mi piace ricordarla con un’intervista nella quale racconta il suo percorso professionale.

Nei miei anni come giudice onorario minorile i postumi del femminicidio li ho visti da vicino. In questi casi il Pubblico Ministero Minorile chiede ai giudici di pronunciarsi sul futuro di quei bambini: se presso parenti, e quali, o se in una nuova famiglia, affidataria o adottiva, o in una struttura.

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In Emilia Romagna il Tribunale per i Minorenni affida questi come tutti i procedimenti a un magistrato, che assume decisioni insieme a tre colleghi in camera di consiglio e può chiedere a uno di essi – spesso appunto un giudice onorario – di fare alcune cose, tra cui condurre udienze, per raccogliere elementi su cui basarsi in via definitiva.

Non c’è mai niente di automatico, quando si fanno scelte che determinano le vite degli altri, e certo non in queste circostanze, in cui occorre tenere conto dei bisogni dei bambini che sono tanti e variegati, dei loro legami preesistenti nella famiglia allargata e non solo, e delle reazioni al trauma. Mi è accaduto perciò, come giudice onorario, di ascoltare gli operatori che per primi si erano occupati degli orfani, i familiari materni e paterni e i ragazzi stessi, se sono abbastanza grandi per poter essere chiamati. Secondo il fondamentale art. 12 della Convenzione di New York ripreso poi dalla legislazione successiva, a partire dai 12 anni ma ancor prima se capaci di discernimento.

Mi è successo anche di incontrare in carcere qualche padre uxoricida. Mi sono sembrati scollegati, dissociati, incapaci di avvicinarsi a quello che avevano fatto. Forse il trauma in qualche modo colpiva anche loro. Non è certo un tentativo di giustificarli, ma credo possibile che tra uccidere e riconoscersi un assassino ci sia una distanza.

Ogni storia meriterebbe un capitolo a sé e non è questo lo spazio, né sarebbe rispettoso per le persone coinvolte. Posso solo dire che dev’essere impensabile una risposta giudiziaria basata esclusivamente sulla concretezza – le possibilità economiche del familiare disposto ad accogliere, l’ampiezza della casa… – o che tenda a rimuovere la violenza, a fare come se non fosse successo niente. A guardare al diritto del padre, se ancora in vita, a svolgere il proprio ruolo educativo indipendentemente da come sta il figlio, o a far passare frasi frequenti nei familiari paterni, di giustificazione dell’accaduto o colpevolizzazione della vittima, come aspetti marginali e superabili. Può darsi che quelle frasi esprimano un bisogno profondo per i nonni o gli zii paterni, è tutto comprensibile, ma credo che i bambini non dovrebbero esservi esposti e che non si dovrebbe equiparare mai, mai, l’assassinio con il tradimento o qualsiasi altra “provocazione”.

Per i figli, gli orfani di femminicidio ma più in generale coloro che crescono nella violenza familiare, tra i bagagli ingombranti e ineludibili c’è l’essere generato – e appunto contenere i geni – del genitore vittima come del genitore aggressore. Ci sono tanti modi spontanei e, credo, legittimi per confrontarsi con questa eredità: prendere una parte o astenersi dal giudizio, nascondere tutto sotto un qualche tappeto o infilarci il naso dentro, raccontarlo agli altri, esprimerlo artisticamente o tacere e cancellare quello che è successo. Può esserci tutto questo e altro ancora, insieme alla nostalgia di una radice più serena. Qualcuno lo ha messo in musica.

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testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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