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Sfoglio articoli sul tema e sorrido ripensando a quelli che ho conosciuto o che posso intravedere in persone incontrate in età adulta.

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Sono i bambini plusdotati o gifted, cioè depositari di un dono (in inglese, gift) eccezionale rispetto alla norma.

Attenzione però, la straordinaria dotazione non è sempre sinonimo di successo e neppure di soddisfazione personale, può diventarlo solo a condizioni molto difficili da trovare. Quei bambini, perciò, vivono spesso difficoltà relazionali fonti di grande sofferenza.

Si riconoscono perché imparano a leggere a 3-4 anni, pongono mille domande, a scuola si annoiano e spesso si spazientiscono con i coetanei di cui non sopportano l’incomprensibile lentezza. Alla lunga si accorgono di essere diversi dalla maggioranza ed è questo, in fondo, il seme di un disagio che li accomuna a coetanei – diremmo – meno fortunati.

Già, perché i bambini gifted, forti del loro quoziente intellettivo eccezionalmente alto, hanno processi mentali sorprendenti, una memoria che assicura ottimi voti senza studiare, mondi immaginari popolati di amici per farsi compagnia. Sono sensibili, hanno particolare appropriatezza di linguaggio, senso dell’umorismo e desiderio di esplorazione. Ma se percepiscono le loro peculiarità come incompetenza a stare nella realtà possono avere reazioni sbilanciate.

A volte vengono bollati con un’etichetta di iperattività o disturbo dell’attenzione, altre volte si sentono in svantaggio verso i compagni di cui non condividono gli interessi e faticano ad avere degli amici, oppure cercano di nascondere il loro modo di essere o, ancora, sono troppo abituati a essere super e sfuggono alle sfide che possono implicare insuccessi. Più di altri possono essere vittima di esclusione e bullismo.

Al tema l’IDO (Istituto di Ortofonologia), nato nel 1970 e specializzato in diagnosi, ha dedicato un recente convegno molto apprezzato. Risulta che i bambini gifted siano il 5% della popolazione – in media 1 per classe – e possano incontrare non poche difficoltà in un ambiente scolastico e sociale incline a livellare più che a valorizzare i doni di ciascuno.

Per questo diversi studiosi, e lo stesso IdO, hanno messo a punto uno strumento diagnostico per riconoscere i plusdotati in età precoce – bisognerebbe riuscirci tra i 4 e i 9 anni, dicono gli esperti – e proposte concrete affinché genitori e insegnanti possano aiutarli a crescere in modo armonico. Uno dei problemi potrebbe essere il disallineamento tra sviluppo cognitivo e emotivo. Un po’ come se camminassimo a due velocità, una gamba che corre svelta e un’altra che tende a incespicare: difficile per chiunque tenersi in piedi.

“La plusdotazione ospita in qualche modo il germe di un genio dentro quello del plusdotato”, sottolinea il neuropsichiatra infantile dell’IdO Davide Trapolino. “Ma il genio per definizione coglie ciò che gli altri non riescono a cogliere. Questo dono sembra essere bilanciato da un rischio costante di non aderire esattamente al cosiddetto senso comune. Vedere le cose diversamente dall’altro non è soltanto un dono, può diventare una dannazione che amplia lo scarto tra me e la realtà trasformandosi in una difficoltà di ordine relazionale”.

“Un esempio da non sottovalutare è il sottotipo gifted dell’underachievement – continua Trapolino – cioè il soggetto che non riesce a esprimere a pieno il proprio potenziale. Anzi nelle sue manifestazioni comportamentali, nella sua espressività sintomatologica, non pone prima di tutto la propria intelligenza ma il proprio disadattamento. In questo caso vi è probabilmente uno scollamento fra l’ideale, le aspettative (anche quelle familiari) e la sua capacità di ottenere risultati, che può esitare in condotte disfunzionali di tipo ansioso depressivo, o in disturbi comportamentali più conclamati. Allo stesso modo può esservi un soggetto che ha un altissimo rendimento scolastico ed è a rischio di ritiro sociale, non trovando da un punto di vista della socializzazione un linguaggio comune col proprio coetaneo”.

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Leggo, ascolto, e non trovo ipotesi sulle ragioni che rendono alcuni plusdotati e altri no. Hanno un QI superiore a 135, d’accordo, ma è anche vero che il quoziente intellettivo non è stabile, può crescere o diminuire in base alle esperienze e all’allenamento. Quanto c’è di innato e quanto di appreso nella socializzazione?

Penso con infinita tristezza ai mini adulti plastificati che sorridono da qualche programma in tv e mi pare che introdurre un bambino in un contesto adulto e spettacolarizzante sia sempre una manipolazione, una mancanza di rispetto.

Molti anni fa un bel libro della psicoterapeuta Alice Miller – “Il dramma del bambino dotato e la riscoperta del vero Sé”, disponibile in rete anche gratuitamente in pdf in qualche sito – mi ha fatto scoprire quanto i bambini molto dotati possano essere duttili e in grado di compiacere i bisogni dei genitori per soddisfarne le aspettative, cioè a dire meritarne l’amore, sotterrando i propri sacrosanti bisogni infantili. E al contempo penso a bambini e bambine che esprimono il loro genuino piacere di suonare uno strumento musicale, fare ricerca scientifica, studiare campi che l’adulto medio giudicherebbe troppo astratti o complessi per loro, e a quanto sarebbe ingiusto inibire quelle potenzialità per farne personcine adattate e tascabili.

In un esperimento sull’apprendimento di parecchi decenni fa gli insegnanti di matematica annunciavano in classe che lì sedeva qualche piccolo genio ma non ne svelavano il nome. Bastava poco perché le capacità aritmetiche fiorissero tra gli alunni, e non in uno soltanto.

Mi parrebbe bellissimo se potessimo pensare che i bambini vivono davvero nello sguardo di adulti capaci di ascoltarli e riconoscerli nelle loro specialissime inclinazioni. Bambini gifted, perché hanno ricevuto un dono, ma al contempo sono stati donati a chi è loro accanto – qualunque quoziente intellettivo quei bambini abbiano. Il dono, sennò, diventa dannazione.

testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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