Qualche anno fa un’organizzazione non governativa lanciò una campagna a livello mondiale intitolata Pas d’enfants en prison. L’obiettivo era la sensibilizzazione delle istituzioni e dell’opinione pubblica sul delicato problema dell’applicazione in fase di indagini della reclusione (custodia cautelare in carcere) e, in fase di esecuzione, della condanna a minori imputabili di un reato.
Tale iniziativa nasceva da una ricerca svolta su più di trenta Paesi del Sud del mondo, dalla quale risultava che era ancora frequente trovare i minori detenuti in prigione senza una separazione netta dagli adulti (quindi in situazioni di grave rischio di promiscuità e abusi), in carcerazione preventiva per una durata di gran lunga superiore a quella prevista dalla legge, senza (o con scarse) possibilità di svolgere qualunque tipo di attività scolastica, formativa e ricreativa. La conseguenza era che le finalità rieducative lasciavano il posto a una scuola per diventare dei veri e propri delinquenti, andando così a incidere negativamente sul tasso di recidiva.
Un altro studio sul fenomeno della criminalità minorile svolto nel 2007 aveva fatto emergere come il tasso di recidiva dei minori autori di reato in Italia fosse il più basso d’Europa. Si tratta di un dato inequivocabilmente connesso alla tipologia di strumenti che il sistema di giustizia penale minorile italiano ha previsto con la riforma del DPR 448 del 1988, ponendo al centro la funzione rieducativa sia del processo sia delle sanzioni. Un simile intento trova riscontro nel tentativo di costruire nelle carceri minorili dei percorsi scolastici e formativi individualizzati, tramite l’impiego di risorse umane ed economiche sempre più risicate,mentre il sovraffollamento rende davvero ardua tale modalità di lavoro Non va peraltro dimenticato che in base alla normativa internazionale la reclusione dovrebbe essere per i minori la pena di ultima istanza e di durata più breve possibile.
Il tema del carcere minorile ha aperto una breccia anche nel cinema, soprattutto nell’ultimo decennio, alla luce di eventi come la sezione “Ora d’aria: dentro, fuori e oltre la detenzione minorile” della IXa edizione del Sottodiciotto Filmfestival, nonché di numerosi lungometraggi di fiction e documentari italiani come Jimmy della collina (Enrico Pau, 2006), Nisida - Crescere in prigione (Lara Rastelli, 2006), Non ci sto dentro (Antonio Bocola, 2009) e L’amore buio (Antonio Capuano, 2010), oppure stranieri come Il figlio (Luc e Jean-Pierre Dardenne, 2002), Les choristes - I ragazzi del coro (Christophe Barratier, 2004), Juízo (Maria Augusta Ramos, 2007), Allein in vierWänden (Alexandra Westmeier, 2007) e Picco (Philip Koch, 2010). Tra questi film, ve ne sono quattro particolarmente significativi.
1. Scritto, girato e prodotto da Antonio Bocola con il sostegno della Provincia di Milano, Non ci sto dentro risulta interessante per la sua analisi dell’intero percorso penale minorile e per la scelta di dare voce agli operatori e agli stessi ragazzi. Con un titolo che piega ironicamente il gergo giovanile alla materia trattata, affronta con occhio attento e non giudicante il tema degli adolescenti che, nel complesso transito verso l’età adulta, commettono reati ed entrano nel sistema giudiziario. Nelle immagini introduttive scorrono veloci in parallelo quattro storie che mostrano la causa dell’ingresso in carcere di altrettanti ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Poi la macchina da presa si sposta nel Centro di prima accoglienza e a seguire nelle altre strutture con cui questi giovani entrano in contatto, scandendo le tappe di un percorso che costantemente si dimostra una “messa alla prova”. Attraverso il racconto di detenuti italiani e stranieri che hanno già avviato un percorso di recupero (dentro l’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano o in comunità educative all’esterno) e degli operatori che li seguono in questo cammino, il documentario evidenzia le esperienze, gli approcci, gli strumenti, i pensieri e le aspettative di ciascuno.
Oltre alle parole degli intervistati, i cui corpi per ovvie ragioni di privacy rimangono invisibili, avvolti nell’ombra o suggeriti per dettagli (bocca, collo, capelli, spalle), a colpire è anche la differenza di genere, con le ragazze più estroverse, sfrontate e schiette dei coetanei maschi. Tra gli operatori interpellati, spiccano le dichiarazioni del magistrato Fabio Tucci, che ha svolto la funzione di giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale per i Minorenni di Milano: «Quando il minore commette un crimine ha superato un muro altissimo, è in una condizione di disagio tale da fargli trovare conveniente compiere un gesto che lo ponga fuori da una situazione di consenso,ma è così spinto dalla paura dell’altro che deve necessariamente agire in modo antisociale. Il suo delitto viene vissuto quindi dagli addetti ai lavori come un grido di aiuto». Parole alle quali si legano quelle di Don Gino Rigoldi, da decenni cappellano del Beccaria, in prima linea rispetto ai ragazzi nel circuito penale: «I comportamenti meno insegnati oggi sono la fiducia, le relazioni, gli amori».
2. L’amore buio di Antonio Capuano, alle Giornate degli Autori della 67a Mostra di Venezia, mette invece a fuoco un tema molto attuale e poco approfondito, il rapporto fra responsabili e vittime di un reato, immergendosi nella realtà degradata e nelle problematiche giovanili della Napoli odierna. La pellicola è incentrata su un caso di violenza sessuale di gruppo perpetrata da quattro minorenni ai danni di una coetanea. Ciro e tre suoi amici dei quartieri “caldi” trascorrono una classica domenica estiva tra corpi annoiati al sole, tuffi spericolati per mettersi in mostra e confrontarsi con i propri limiti, una cena con pizza e birra rigorosamente non pagata. Poi, scorrazzando di notte in scooter, i quattro incontrano una coppietta in auto e, una volta che la ragazza è rimasta sola, la circondano e la trascinano in un garage dove abusano di lei. Il giorno successivo Ciro, preso dal rimorso, si costituisce e denuncia gli amici, che ritrova nel carcere minorile di Nisida. Nel frattempo è iniziato il calvario di Irene, costretta a convivere col trauma della violenza e con incubi ricorrenti che non le danno tregua. In prigione Ciro deve fare i conti non solo coi propri fantasmi e con il nuovo contesto, ma anche con l’odio degli ex compari e delle loro famiglie, che mettono in atto ogni angheria nei confronti dei suoi cari. In questa pellicola il carcere - circondato da una natura integra e selvaggia, che sembra poter trasmettere ai detenuti valori di purezza ormai dimenticati - viene mostrato non solo come luogo di espiazione della pena, ma anche e soprattutto come ambiente di passaggio per accedere a una vita diversa, più responsabile e adulta. È infatti varia la gamma di attività scolastiche, formative, ricreative e socializzanti che gli operatori, pur nella penuria di mezzi, offrono ai ragazzi, per valorizzare le potenzialità di ognuno e stimolare la riflessione necessaria a consentire il cambiamento. Il tortuoso percorso di sopravvivenza e recupero di Ciro e Irene è sottolineato dalla regia di Capuano, che al ritmo incalzante della prima parte sostituisce un tono più meditativo, fatto di molti piani ravvicinati, capace di esplorare la solitudine e il rimpianto di carnefice e vittima, due ragazzi ugualmente prigionieri di un dolore (inflitto o subito).
3. Specializzatasi nel cinema documentario grazie all’esperienza nella Netherlands Film and Television Academy,Maria Augusta Ramos conosce il mondo della giustizia penale già dai tempi di Justiça (2004), ospitato in varie rassegne internazionali, tra cui il Festival dei Popoli di Firenze, e vincitore di premi prestigiosi come l’Amnesty Award a Copenhagen.
Il suo nuovo lavoro Juízo, incluso nella sezione “Cineasti del presente” del 60° Festival di Locarno, è una docufiction che racconta cosa si verifica quando un minore viene accusato di aver compiuto un qualsiasi tipo di reato a Rio de Janeiro: dal furto di una bicicletta allo spaccio di cocaina, dalla rapina a mano armata all’omicidio premeditato. La regista ci accompagna all’interno del sistema giudiziario minorile brasiliano, lasciando che sia lo spettatore a valutare ciò che vede. Vengono seguite fedelmente le varie tappe del percorso penale (l’arresto, l’udienza in tribunale, un incontro con i genitori), ma anche ciò che accade dopo la sentenza (il ritorno per le strade, il rientro in famiglia o l’inserimento in una comunità). Lo spirito antropologico della cineasta si sofferma sulle mille deviazioni che il destino può imporre ai ragazzi in questo loro processo giudicante ed educativo, spesso senza alcun controllo da parte di chi li dovrebbe reinserire nella società.
Basta aspettare qualche minuto nella fatiscente sala d’attesa del tribunale, osservare le visite dei genitori, studiare le uscite in ordinate file indiane dei detenuti in palestra per capire come in quei momenti tutto possa succedere. Traspare da parte dei ragazzi una grande disciplina e una silenziosa sottomissione e si comprende che è la conseguenza del trattamento al quale sono sottoposti nelle strutture in cui sono collocati in attesa dell’udienza. Attraverso la finzione Juízo tenta di catturare la maggior percentuale possibile di realtà: poiché la legge brasiliana vieta espressamente di rivelare l’identità di minori autori di reati, la Ramos ha chiesto ad alcuni giovani di “interpretare” i loro coetanei condannati. Provenendo dallo stesso milieu sociale, avendo vissuto sulla propria pelle analoghe situazioni di marginalità e violenza, questi non-attori non recitano ma “impersonano” esistenze che avrebbero potuto essere (o saranno) le loro.
4. Nel suo esordio, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del 63° Festival di Cannes, Philip Koch descrive infine in modo crudo e asciutto la realtà delle carceri minorili tedesche. Tratto da una vicenda autentica, il suo Picco ci catapulta nella claustrofobica quotidianità di quattro detenuti adolescenti.
Unici momenti di evasione la partita di calcetto, la televisione e l’ora d’aria. Tutto il resto del tempo è attesa in una cella, noia e accumulo di aggressività, con inesistenti valvole di sfogo che non siano la sopraffazione del più forte sul più debole. Gli incontri settimanali con una psicologa dovrebbero costituire il fulcro del percorso cosiddetto “educativo”,ma i risultati sono scarsissimi, sia per l’approccio costrittivo sia per l’assenza di altri strumenti che dovrebbero affiancare una terapia simile. Non vi sono margini per una riflessione critica sulla propria condotta, non c’è traccia di una rielaborazione del passato, tant’è che allo spettatore non è dato sapere quali reati i personaggi abbiano commesso. Nessuno spazio dunque per un reinserimento nella società, dato che non sono previsti percorsi di studio e formazione professionale nella struttura penitenziaria, né contatti con il mondo esterno, se non mediante le periodiche visite dei familiari. Ciascun ragazzo è abbandonato a se stesso dentro quelle mura, con l’assillo di difendersi e sopravvivere, anche a costo della vita di qualcun altro. In un crescendo di tensione Picco, nomignolo dato al protagonista, vince le sue riserve e accetta di fare gruppo col più forte contro il più debole, pur di non essere lui la vittima predestinata. Spiega il regista: «Ho creduto fosse giusto raccontare questa storia quando nel 2006, tra i molti fatti di cronaca verificatisi nelle prigioni minorili tedesche, appresi di tre ragazzi che avevano torturato il loro compagno di stanza per dodici ore prima di costringerlo al suicidio».
Le situazioni descritte in queste pellicole, frutto in ogni caso di un’elaborazione estetica e narrativa, sono specchio fedele di un microcosmo impregnato di dolore e violenza,ma anche rischiarato dalla prospettiva di una riabilitazione e di un cambiamento.
Tagli in bilancio che interessano tutti i settori della pubblica amministrazione, sovraffollamento di alcune strutture, carenza in organico di personale specializzato (educatori, psicologi, assistenti sociali e mediatori culturali) sono fattori che rischiano di ridimensionare quella speranza, minando il senso stesso della pena detentiva.
articolo pubblicato per gentile concessione della rivista Duellanti
con un ringraziamento al Tribunale dei Minori di Milano