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Per gentile concessione della casa editrice e dell'autore, pubblichiamo l'introduzione di "Psicopatologia dell'adolescenza. Lineamenti"  di Giacinto Froggio (Universitas Studiorum, 2019)

In genere il sottotitolo di un libro fornisce maggiori specificazioni rispetto al titolo stesso. A questa consuetudine non sfugge nemmeno quest’opera. Infatti, se il titolo “psicopatologia dell’adolescenza”, di per sé abbastanza pretenzioso, potrebbe far pensare ad uno di quei manuali, sempre più numerosi, pieni di informazioni su sindromi e sintomi; il titolo secondario, “lineamenti”, suggerisce che di ciò non si tratta.

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Si parla, è vero, di psicopatologia dell’adolescenza, cioè della sofferenza psichica di un periodo della vita del quale ancora oggi molto ci sfugge, ma non è un trattato di semeiotica psichiatrica e, anche se non mancano riferimenti ai sintomi ed ai segni di “malattia”, ciò non rappresenta l’interesse primario di quest’opera: non sono illustrate e descritte unità diagnostiche raggruppate tra di loro, cosa che altri più illustri e paludati autori hanno fatto prima e meglio di quanto possa fare io. Tutto ciò forse rappresenta oggi una voce stonata, fuori dal coro, che certamente mi allontana da una psichiatria e da una psicologia (che è diventata pian piano la sua ancella) che a me sembra stia perdendo la sua anima, fagocitata lentamente dai nuovi miti psicopatologici: le neuroscienze.

In questo volume, così corposo, si parla dunque di adolescenza e delle sofferenze psichiche di alcuni ragazzi, si delineano appunto gli elementi e le caratteristiche portanti di un discorso che ritengo complesso ed eclettico sulla psicopatologia in questo periodo della vita. Un discorso che è articolato in quattro grossi capitoli che ne rappresentano le parti essenziali. Ho deciso di non spezzettare il libro in tanti capitoli più brevi, cosa che avrebbe reso forse più leggera la lettura (lo stile di scrittura mi sembra resti tuttavia immediato, diretto e veloce) ma che a mio avviso non avrebbe permesso una comprensione più approfondita dell’argomentazione.

Così, nel primo capitolo, “adolescenza e psicopatologia”, assieme alla presentazione del periodo evolutivo, nelle sue diverse componenti (biologica, psicologica, storico-culturale, sociale e sociologica), c’è l’illustrazione e la chiarificazione delle difficoltà, dei disagi e delle psicopatologie ad esso connesso che, se non ben individuate e trattate, tenderanno a conservarsi e peggiorare nel corso della vita. Il capitolo si chiude evidenziando come non sia possibile comprendere lo sviluppo dei disturbi senza prendere in considerazione, non solo l’individuo nelle sue diverse componenti, ma anche i contesti ed i sistemi di riferimento. Individuo e contesti interagendo ed intrecciandosi tra di loro danno vita a qualcosa di singolare anche in senso “patologico”.

Il secondo capitolo è quello più “psichiatrico” di tutta l’opera, nel corso del quale il riflettore viene acceso sul significato stesso della psicopatologia e, nello specifico, dei disturbi psicologici nell’età adolescenziale. È la parte del libro nel corso della quale le certezze (a dir la verità ancora assai poche) della moderna psichiatria sono presentate e considerate con occhio attento e critico, nel contempo cerco di abbozzare una descrizione dei disagi e dei disturbi psicopatologici in adolescenza, differenziando ciò che è “malato”, da ciò che invece, anche se si presenta in questa fase della vita con aspetti alle volte abbastanza problematici, malato non è, ma rappresenta una manifestazione del percorso, alle volte abbastanza difficile, verso l’adultità. Non si tratta certo di una grande novità, segue in qualche misura altri tentativi effettuati da nomi prestigiosi, primo fra tutti quello dello psicopatologo evolutivo Thomas M. Achenbach. L’originalità della mia proposta ritengo sia quella di saldare fra loro aspetti di carattere strettamente descrittivo con quelli sociali e antropologici, uscendo così da una impostazione categoriale che poco si adatta al mio modo di leggere e intendere i disturbi nell’adolescenza.

Questa operazione apre al terzo capitolo, ovvero alla presentazione del modello psicopatologico. Di modelli psicopatologici attualmente ne esistono diversi, quando poi si parla del periodo evolutivo non si può far a meno di far riferimento a quello che è il paradigma per eccellenza: la psicopatologia dello sviluppo. Ed è facile immaginare che questo mio contributo sia né più né meno che una rivisitazione, una specie di illustrazione, di un filone di studi già aperto da altri, obiettandone così la poca originalità. In realtà, il modello psicopatologico presentato nel terzo capitolo se rende per così dire omaggio e riconoscenza all’opera dei tanti psicopatologi dello sviluppo, Cicchetti, Masten, Luthar e colleghi, se ne distacca per una serie di aspetti che lo rendono peculiare. Come ripeto più volte nel corso della trattazione, si tratta di un “macro paradigma” che, se acquisisce degli elementi propri della psicopatologia dello sviluppo, assume al suo interno contributi che appartengono sia ad una cultura psicologica e psicopatologica tipica della vecchia Europa, sia agli autori anglosassoni che, alle volte del tutto involontariamente (come la psicologa evolutiva americana Esther Thelen), ad essa si sono ispirati. Ci sono una serie di elementi che caratterizzano questo mio modello.

  • I primi elementi che lo caratterizzano sono i riferimenti antropologici, che raramente vengono specificati dalla psicopatologia dello sviluppo. Il richiamo è alla fenomenologia filosofica e psichiatrica. Ai grandi pensatori, soprattutto di lingua tedesca, soprattutto a Max Scheler nella sua comprensione dell’essere-nel- mondo come un unico indivisibile di più dimensioni, dove quella esistenziale risulta essere la centrale. Quindi ai grandi psichiatri e psicopatologi come Jaspers, Binswanger, ma particolarmente al mio maestro Viktor E. Frankl nella concezione dell’uomo, finanche quello “malato”, come un essere libero se non da, almeno per qualcosa, responsabile, dotato di una sua consapevolezza ed interiorità che va ben oltre le strettoie diagnostiche dei manuali statistici alla moda che non riescono a cogliere, anzi ignorano quasi del tutto, la profondità di un’esistenza. L’uomo, come essere alla continua ricerca di significati da dare alla propria vita, è ben altro di ciò che vorrebbe lasciare intendere un mortificante riduzionismo biologista.

  • Un altro elemento caratterizzante è l’epistemologia di riferimento: la complessità. Se ha senso la mia posizione antropologica, allora uno studio scientifico delle problematiche adolescenziali deve tener conto delle dimensioni che le caratterizzano e come esse si intreccino, si reciprochino, si influenzino. La complessità, senza cedere alle tentazioni deterministiche, riduzionistiche e meccanicistiche che di tanto in tanto in essa affiorano e sulle quali nel corso del volume esprimo il mio dissenso, ritengo che offra, come metodo di analisi e di studio, delle possibilità decisamente maggiori rispetto alle epistemologie tardo ottocentesche.

    In senso operativo ciò si esplica nell’utilizzo dei contributi dell’approccio ecologico, della teoria sistemico relazionale, della teoria dinamica dei sistemi.
  • Un ulteriore elemento è l’approccio life span che, se in linea generale, viene condiviso anche dalla psicopatologia dello sviluppo, nella mia concettualizzazione se ne distacca per il tentativo, teoricamente legittimato, di integrare fra di loro due approcci:

    a) il Corso di vita (nel quale ho anche ricondotto la psicologia del Ciclo di vita), nato originariamente all’interno della sociologia evolutiva che è poi stato assunto anche dalla psicologia sociale; e

    b) l’Arco di vita proprio della psicologia dello sviluppo. Questa integrazione avrebbe potuto condurre nel corso della trattazione a delle ripetizioni, sovrapposizioni ed equivoci terminologici, cose queste che, nei limiti delle mie possibilità, ho cercato di evitare sottolineando i differenti significati che alcuni concetti, apparentemente uguali, hanno nei due approcci.
  • L’ultimo elemento del mio discorso è la “visione biografica” della psicopatologia in adolescenza. Si tratta di un modo di accostarsi alla comprensione del periodo adolescenziale e delle sue proble- matiche inaugurato da Charlotte Malachowski Bühler, basato essenzialmente sulle analisi delle autonarrazioni, che purtroppo nel nostro paese ha trovato poca fortuna a favore invece di quello più propriamente empirico alla Stanley Hall. Un modo di intendere i disturbi, anche in adolescenza, come “eventi biografici”: qualcosa che si inserisce all’interno della storia di vita complessiva di una persona, che trova nello psichiatra Viktor von Weizsäcker, padre della medicina psicosomatica, uno degli iniziatori. Il quarto e ultimo capitolo può essere considerato la dimostrazione fattiva del modello teorico. Infatti, se nei capitoli precedenti la narrazione è di tipo concettuale, ciò non vuol dire che non ci siano (e sono numerosi) esempi concreti e storie reali, in questo capitolo cerco di illustrare e dimostrare la validità concreta di quanto ho documentato per via teorica. È la parte dell’assessment condotto, su una storia vera (quella di Alessandro e dei suoi problemi psicologici), in senso longitudinale e trasversale. In senso longitudinale, esaminando e scomponendo la biografia di questo ragazzo, di appena diciassette anni, al fine di mostrare come nel corso di questa giovane esistenza si siano intrecciate una quantità enorme di traiettorie, transizioni, interazioni, reciprocazioni, come si siano composti tra di loro rischi e vulnerabilità, forze sane e protezioni. Per arrivare, nel presente, assessment trasversale, a comprendere quali siano gli elementi di contesto ed individuali che mantengono e potenziano una “patologia”.

Il taglio di quest’opera è scientifico e il linguaggio che ho utilizzato è proprio di un’impostazione più psicologica che psichiatrica. Cosa che mi è congeniale giacché rappresenta, assieme alla mia formazione, le mie convinzioni.

Questo lavoro è il completamento di un modello teorico e pratico, sviluppato all’inizio per la comprensione ed esplicazione del disagio e della devianza adolescenziale e del suo trattamento. Con esso si conclude un ciclo di studi e ricerche sull’adolescenza, durato praticamente tutta una vita professionale, che si è concretizzato nella la pubblicazione di diversi articoli su riviste scientifiche di prestigio nazionali ed internazionali e numerosi libri, singoli e collettanei. Un ciclo che si è fondato, è stato guidato e sostenuto da alcune esperienze umane e professionali.

La prima esperienza, quella che resta per me la “testata d’angolo” sulla quale ho edificato il resto del mio lavoro, è riferita agli anni della mia giovinezza, soprattutto al periodo universitario: l’attività ed il forte coinvolgimento nel volontariato svolto in una grande associazione educativa. Qui ho aiutato a crescere centinaia di adolescenti e giovani. È stato per me come aver ricevuto una specie di imprinting ed una formazione all’ascolto, all’attenzione, all’incontro.

Ho imparato ad essere per tanti ragazzi in difficoltà, più che un “amico adulto”, un “fratello maggiore”.

La seconda esperienza che per me è stata formazione e guida è l’incontro ed il lungo rapporto, durato quasi vent’anni, con lo psichiatra viennese Viktor Emil Frankl, fondatore della logoterapia e della concezione antropologica, previa alla psicoterapia, nota come analisi esistenziale. Da Frankl non ho imparato a fare ma ad essere uno psicoterapeuta: ho compreso cos’è l’attenzione all’individuo, che è unico ed irripetibile, ho imparato a stare accanto alla sofferenza, perché anche nelle situazioni peggiori c’è sempre la possibilità di realizzare qualcosa di grande, di dare alla propria vita un significato ed una pienezza esistenziale, nonostante tutto.

A qualcuno forse potrà apparire strano che una concezione esistenziale si possa coniugare con la mia attenzione alla complessità ed all’ambiente; al contrario, ritengo che fra di esse ci sia un intimo e forte rapporto. Il mettere al centro della propria attenzione l’altro, la persona, significa agire per lei e nelle sue condizioni di vita.

Non bisogna dimenticare poi che Frankl stesso, dopo l’espulsione dalla Società di Psicologia Individuale adleriana, fu l’ideatore ed animatore negli anni ’30 dello scorso secolo dei Centri di Consulenza per giovani (Jugendberatung) in condizione di disagio psicologico o con manifestazioni apertamente psicopatologiche. In tali Centri, che funzionarono dapprima a Vienna e quindi in altre sei città europee, vi prestarono la loro opera a titolo totalmente gratuito grandi psicoterapeuti come gli adleriani Erwin Wexberg e Rudolf Dreikurs ed il fondatore della pedagogia psicoanalitica August Aichhorn.

Questa sensibilità all’ambiente, da parte degli psichiatri e psicologi appartenenti alla corrente fenomenologico-esistenziale, del resto, è evidente proprio in colui che considero il massimo esponente di questa corrente qui in Italia: Franco Basaglia, del quale certo non si può dire che abbia dimenticato i contesti di vita del cosiddetto “malato mentale”.

La terza esperienza, per me fondamentale, sono stati i tanti anni dedicati alla ricerca psicosociale sull’adolescenza svolta sul campo, avendo da guida maestri come il compianto Giancarlo Milanesi, Robert Agnew della Emory University di Atlanta, e i tanti amici e colleghi nei diversi Istituti universitari e nelle Fondazioni dove ho lavorato. Da tutti questi, non solo ho imparato a fare ricerca, ma soprattutto ho appreso uno stile ed una professionalità: la modestia e l’umiltà, la costante messa in discussione di ciò che si scopre senza mai tirare le somme del proprio lavoro, la curiosità e il rigore scientifico. Tenendo bene a mente che il fine non è mai la scienza per la scienza, ma l’utilità che può avere sotto un profilo concreto, preventivo, educativo o trattamentale che sia, ciò che si scopre.

Poi i tanti anni di insegnamento, oramai più di trenta, in grandi strutture universitarie così come in piccoli Istituti dove ho sempre cercato di formare gli studenti al sapere e al saper-essere più che trapassare delle nozioni. In questi anni ho scoperto quanto sia vera l’affermazione di Arthur Schopenhauer: “insegnando impariamo”.

Il compito di insegnare mi ha costretto al continuo aggiornamento, alla critica costante, dagli studenti e dai tanti specializzandi ho ricevuto critiche e lodi, obiezioni che mi hanno fatto scorgere ciò che non ero riuscito a vedere o avevo superficialmente ignorato.

Infine, l’esperienza più importante, senza la quale forse questo libro, come altri, non avrebbe visto la luce: i tantissimi ragazzi che ho seguito nella mia attività psicoterapeutica. Agli psicoterapeuti è noto come la terapia con gli adolescenti sia una delle esperienze maggiormente stimolanti, ma nel contempo frustrante e ansiogena.

Io stesso mi sono potuto rendere conto che la formazione che avevo ricevuto non bastava perché nel lavoro con i ragazzi entrano in gioco tutta una serie di aspetti che vanno ben al di là della “terapia ortodossa”, svolta con bambini o con gli adulti, di qualunque approccio o scuola essa sia.

Gli adolescenti, soprattutto nella fase della prima e in parte della media adolescenza, non sono ben disposti e disponibili nei confronti della terapia. Mi sono misurato all’inizio dell’attività con quello che sembra essere uno scoglio che quasi tutti i terapeuti incontrano: la ritrosia, alle volte il rifiuto manifesto a coinvolgersi in un trattamento.

Ho capito come l’opposizione ostinata di alcuni ragazzi al ruolo di “pazientini” non fosse collegata semplicemente ad una diffidenza nei confronti dell’adulto, alla paura di far la figura degli “sfigati”, di essere presi in giro dai coetanei, di essere considerati dagli amici degli “strani”, alla perdita di qualche vantaggio secondario connesso al loro malessere, a qualche forma stravagante di resistenza.

Ma fosse da attribuirsi innanzitutto al rifiuto di vedersi costretti in una posizione, quella appunto del piccolo paziente, in virtù di problemi e dinamiche non solo personali ma che riguardano condizioni difficili più ampie che si situano in contesti quali la famiglia, la scuola, gli amici, in una architettura sistemica nella quale essi sono al centro. Ho preso consapevolezza di come il rapporto con i ragazzi costringa spesso ad abbandonare gli schemi, le procedure e le tecniche tradizionali. Ciò non vuol dire che si debba scivolare in una forma di trattamento guidato dal buon senso, che finisca con l’essere una chiacchierata alla buona tra amici, ma richieda ascolto, dialogo, disponibilità, andar oltre le regole e i metodi tradizionali: significhi in primo luogo lasciar sempre aperta la porta del proprio studio, per esprimere accoglienza e riguardo riassumibile in una breve, semplice frase: “io per te ci sono, puoi venire ogni volta che lo vorrai e se lo vorrai”. In una parola, ciò vuol dire fondare un modo di far terapia con gli adolescenti, dove il primo passo è comprendere ciò che si muove.

L’introduzione di un libro per me rappresenta una specie di benvenuto al lettore, durante il quale il padrone di casa si presenta, accoglie gli ospiti e descrive ciò che essi troveranno. È cioè un momento confidenziale, premuroso, privo di formalismi. Ora lascio quindi il confidenziale per passare al composto atteggiamento scientifico, che sembra si addica di più a quest’opera, e spero che non vi annoi troppo. Buona lettura e, a chi ne è costretto, buono studio.


Il libro si può acquistare qui

Giacinto Froggio
Psicologo e psicoterapeuta. Si occupa dall’inizio degli anni ’80 dello scorso secolo del disagio, della devianza e della psicopatologia dell’adolescenza. È Docente Stabilizzato presso l’Istituto Universitario “Progetto Uomo” Aggregato alla Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma. Dal 2007 al 2018 è stato Docente Invitato presso il Consorzio Interuniversitario FO.R.T.UN.E, ed è attualmente Docente Invitato presso l’AIPRE (Associazione Italiana di Psicologia Preventiva) il CRP (Centro di Ricerca in Psicoterapia).

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