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Sveglia ore sei.

Lo aspetto giù.

È silenzioso, come sempre.

È percorso da un fremito, è il freddo dell'alba.

Sono le sei e quarantacinque circa.

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L'emozione del primo giorno di scuola.

Ha quindici anni, fra un mese sedici.

È troppo facile sognare a quasi sedici anni.

È troppo difficile.

È in Italia da quando ne ha undici, anzi qualche giorno fa ha scoperto che ne aveva solo dieci, me lo ha detto, in colloquio, in uno di quei colloqui che fa senza guardarmi negli occhi, senza guardarmi mai, a volte la faccia rivolta al pavimento, a volte al muro, a volte dietro le mani lunghe, è tutto lungo, e magro, fa sentire piccoli, è piccolo, e vive solo da tanto tempo ormai.

Non doveva essere lui a venire, non era il più grande dei fratelli, ma è stato il prescelto, forse perché il più scaltro, ma ci sono troppi forse dietro il viaggio intrapreso, lontano da casa, ed ogni forse è un dubbio, cresciuto con lui.

La 94 fino a Cadorna.

Da Cadorna la rossa fino a Porta Venezia, fermata Porta Venezia.

Alle sette e diciannove il passante che esce dalla città.

È fresco, una mattina di settembre dopo un'estate calda, di attesa.

Scorci di città: fatiscenti, incompiuti, abbozzati, scomposti, parcheggi, auto, rimesse, capannoni, il di dietro della città, finestre che guardano tristi il treno passare.

Poi una brughiera residua, frastagliata.

Poi qualche stazione, pochi passeggeri salgono e pochi scendono.

Poi la nostra fermata.

Dalla stazione un buon quarto d'ora a piedi fino alla scuola.

Arriviamo, una breve presentazione, una professoressa di poche parole, una scarna accoglienza, magra come il paesaggio, come i caseggiati affamati affacciati sulle strade che ci hanno portato qui.

È difficile sognare per queste strade, fra queste case che segnano un destino che se lo guardi fa disperare.

Lui un sogno ce l'ha. Tornare dalla famiglia e aprire un ristorante italiano.

Tornare. Qual è la strada per tornare?

La strada è ogni giorno, ogni giorno che inizia alle sei. Attraversare questo mondo estraneo, solo, con la paura di non potercela fare.

Quando l'ho incontrato il primo giorno mi ha detto rabbia, tanta rabbia.

Quando gliene parlo il suo silenzio diventa lacrime, piccole.

È difficile parlare.

Mi saluta già fra i banchi con un segno di vittoria. 



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Breve estratto da una relazione educativa. Un vissuto come lo chiamano gli educatori. I protagonisti dello scorcio sono l'educatore di una comunità residenziale per minori e un ragazzo marocchino giovane ospite della comunità. Giunto in Italia a dieci anni, o forse prima, giovanissimo. Il mandato migratorio come spesso accade è fumoso e come sempre accade è impossibile tornare indietro, foss'anche solo per un saluto, senza avervi adempiuto. I sintomi del ragazzo sono chiaramente legati al suo vissuto abbandonico, per cui rabbia, tanta rabbia, mancanza di figure di riferimento significative, per cui negazione dell'autorità in ogni sua forma, bassa autostima.

Un randagio con un piccolo grande sogno, scaturito dall'incontro sulla sua pelle di due mondi: portare la cucina italiana in Marocco, o la cucina marocchina in Italia.

Ma il nostro dovrà attraversare litri e litri di corallo per poterlo realizzare. Sconfiggere i mostri nella sua anima. Sperimentare il contenimento, introiettare il rispetto delle norme che nessun padre gli ha mai insegnato. È un ragazzo a rischio devianza. La trasgressione e il reato come estrema richiesta di aiuto, così gli educatori traducono il messaggio inscritto nell'agito antisociale. In quella comunità non ce l'ha fatta, la rabbia è diventata disobbedienza, poi provocazione verbale, poi mani al collo e spintoni. Niente di grave. Ma la comunità quanto può tenere? Quanto sopportare? E quanto è giusto che sopporti, è più educativo dimettere o rilanciare un progetto educativo? Alla fine una decisione va presa, in un calcolo che sia il più possibile lucido ma che mai può essere scientifico. Come si può essere scientifici con le cose degli umani? 

Fiumi di parole in équipe, argomenti razionali ed emozioni, tante emozioni. In quella comunità non ce l'ha fatta e neanche nella casa famiglia dove il servizio sociale ha trovato la possibilità di collocarlo. Una decisione che l'assistente sociale ha dovuto prendere rapidamente, perché le dimissioni sono arrivate con forza e immediatezza in seguito all'ennesima provocazione. Meritevole di risposta. Tutto è meritevole di risposta. Anche in quella casa ha fallito ho saputo, troppo affetto per uno che dall'affetto è stato esiliato. Ora è lontano a sperimentare il contenimento.

Alberto Dal Pozzo
Educatore, da un anno responsabile della Comunità residenziale per minori "Terzo Spazio" di Arimo.