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Le urla trovano la finestra aperta e ci entrano in casa. Poi si smorzano, racchiuse dalle mura del palazzo di fronte. Noi, tre donne, ci guardiamo allarmate e ancora non parliamo. Tendiamo le orecchie.

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Riprendono, le urla, più e più forte e ci raggiungono trapassando i muri. Lui imperioso, rabbioso, lei che protesta.

Ci guardiamo in faccia. “Chiamiamo?”

Teniamo il cellulare in mano, come sfogliare la margherita. Difficile capire la gravità di quel che non si vede.

Un doppio “Aiuto!” di lei di puro terrore ci toglie ogni dubbio, componiamo il 113. Mentre l’amica avverte la polizia, la finestra aperta lascia entrare la voce dei vicini di pianerottolo che con il 112 stanno avvisando i Carabinieri. Sentirli ci rincuora, ci dà il senso di appartenere a una piccola comunità diffusa che senza fare niente di eccezionale rimane attenta e fa scudo.

A questo punto siamo accanto alla finestra, e quando lei esce da quella casa che è sull’altro lato della strada, pochi passi più in là, scendiamo. Intanto lui la segue, non è tranquillo per niente e ha il passo incerto di chi probabilmente ha bevuto parecchio. Le butta addosso insulti e un barboncino bianco che lei prende in braccio come per salvarlo dai sassi. Io me ne sto dritta a guardarli, penso: “bene che lui mi veda, finché sa di essere osservato non l’ammazzerà”.

È terribile immaginare che un omicidio possa succedere così, da un momento all’altro, la porta accanto alla tua. Terribile e spontaneo – anche questo è orrendo – e necessario. Dalle nostre parti, in pochi giorni, due femminicidi.

Anche il vicino di pianerottolo è sceso. Dà voce alla paura di tutti. “Ne hanno appena ammazzate due, non si può mica sapere”. Per un attimo ci sentiamo come in presenza di un esercito diffuso e quasi sempre nascosto, fatto di uomini violenti pronti a colpire, o come ci fossero luoghi sparpagliati e invisibili di segregazione e tortura, e spettasse a tutti e quindi un po’ anche a noi azzardare qualcosa, sabotare un’arma, socchiudere una porta.

La moglie del vicino dalla finestra parla con la donna, lei sola osa farlo, in un modo che commuove. “Signora, siamo tutti qui per lei”. Quanto è vero, penso. In cuor mio la ringrazio per aver trovato le parole.

Lui intanto è rientrato in casa. Lei oppressa di vergogna e dolore in questo momento non ci vorrebbe lì, lo dice. “Va tutto bene, andate via andate via”. Lo dice tra le lacrime, il viso stravolto, il barboncino stretto al petto come un’ancora di salvezza. È uscita in tuta come si trovava in casa, si affretta.

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Mi dico: attraverso la strada e le vado incontro. Siamo in una stradina stretta, basterebbe un attimo. Vorrei ma non lo faccio, e non so perché non lo faccio. La scena ha una forza paralizzante. La violenza ce l’ha. Ma non voglio nemmeno andare via.

Lei svolta l’angolo, arrivano i carabinieri che per far presto, coi lampeggianti, hanno preso un controsenso e due automobilisti assurdi che procedono dalla direzione giusta si trovano imbottigliati e esercitano il diritto di protestare: ma come, e noi allora?

Descriviamo agli agenti la scena, la donna. Si capisce che sono pronti, non stanno sottovalutando niente e io mi sento rincuorata. Di divise che consigliano “lo perdoni, signora” c’era pieno il mondo fino a pochi anni fa, qualcuno in giro si vede ancora, mi sembra non siano più maggioranza. Prego che non lo ritornino.

Dopo un po’ lui esce di nuovo, svolta l’angolo come la donna e l’auto dei carabinieri, rientra in poco tempo col cane. Si chiude in casa e chiama lei, lo sentiamo implorare.

“Amore mio, torna. Amore, lo giuro amore, ho sbagliato ma non lo faccio più. Sono arrivati anche i carabinieri, non facciamo cose. Torna amore, te lo dico in ginocchio. Torna almeno per fare le valigie…”.

Saliamo le scale e sale la rabbia per quel fare mieloso fuori tempo massimo. Teniamo le orecchie ben aperte col timore di vederla rientrare davvero.

No, per fortuna. Chissà domani, e il giorno dopo, e quello dopo ancora, ma stasera no.

Di relazioni interrotte e riaccese di nuova speranza in un andirivieni sfinente sono pieni gli archivi della memoria, come dei tribunali o dei centri antiviolenza, e qualche volta purtroppo l’interruzione è per sempre. Penso: forse se questa donna trova subito l’accoglienza giusta ce la farà a non rientrare.

Come è delicata una crisi. Come è ricca di opportunità. Un corridoio opprimente e scuro tappezzato di porte magari chiuse, spaventose, lontane, ma possibili, per accedere ad altro. Se questa donna sarà accolta forse ce la farà a proteggersi, a non tornare indietro e a dare il nome giusto alle cose, che la violenza è violenza e l’amore no.

Nella provincia di Ferrara sono state uccise Cinzia Fusi il 23 agosto 2019 e Atika Gharib il 3 settembre, quest’ultima ritrovata nel bolognese. Secondo il sito www.inquantodonna.it, Osservatorio sui femminicidi, quest’anno sono state assassinate 47 donne. La sequenza ultima è impressionante: 11 dal primo agosto al 14 settembre, data in cui scrivo.

Lo preciso perché pubblicheremo tra qualche giorno. Spero che l’elenco non si allunghi ma non si può mai sapere.


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è la direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati e referente dell’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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