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All’interno della comunità Terzo Spazio di Arimo è da tempo attivo un laboratorio artistico dedicato ai ragazzi, promosso da Eleonora Corti, giovane artista alla quale abbiamo chiesto di parlarci di questa interessante esperienza. Al dialogo si è unito anche Alberto Dal Pozzo, responsabile di Terzo Spazio.

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Anzitutto due parole su di te

Eleonora Corti: Sono un’artista, una pittrice. Lo faccio di mestiere, produco e vendo le mie opere. Sono seguita da diversi curatori.

Come hai “incontrato” Arimo e la sua comunità “Terzo Spazio”?

E.C: Conoscevo Paolo, un educatore della comunità, che mi ha proposto di fare un laboratorio artistico con i ragazzi, sapendo del mio lavoro di pittrice. Mi ero già impegnata in passato in attività con ragazzi adolescenti.

Quando hai avviato il tuo laboratorio?

E.C: A novembre 2018.

 Come si chiama?

E.C: Terzo Spazio Lab. Il nome l’hanno scelto i ragazzi.

Quanto dura? Ha un giorno fisso?

E.C: Adesso è al venerdì, dura un’ora e mezza. La durata non è fissa, anche perché a volte i ragazzi si “accendono” con i loro tempi, magari all’ultimo hanno un’idea e iniziano a lavorare, e vorrebbero vedere conclusa la loro tavola. 

Qual era la tua idea, la tua proposta quando hai messo in piedi il laboratorio?

E.C: Molto semplice. Io mi sono proposta per quello che sono, un’artista. Non ho ambizioni educative o terapeutiche. In genere quando si fa un laboratorio artistico in situazioni “delicate” come quelle di una comunità, lo si fa come arteterapia.

La mia ambizione era quella di fare un laboratorio di arte contemporanea, che è un’altra cosa. Aprire una “finestra” su quello che è il mondo dell’arte, dell’espressione artistica, che appartiene a tutti, indipendentemente dalle condizioni personali, età, posizione sociale, livello culturale, e così via. Ogni persona può trovare il proprio modo di avvicinarsi a quest’area culturale che è l’arte contemporanea. La mia idea, per i ragazzi, era di favorire questo avvicinamento.

Per me non è importante il risultato, l’opera. Quello che facciamo a Terzo Spazio Lab non è finalizzato a nulla, se non a cercare di creare un piccolo percorso che faccia capire e lasci un po’ di “cultura” su quello che è l’arte. Solo grazie alla parola arte si aprono innumerevoli panorami e possibilità di mettersi in gioco, a partire dall’espressione personale.

Alberto Dal Pozzo: In comunità abbiamo accolta Eleonora, che noi chiamiamo Lola, solo per questo motivo. Se Lola avesse proposto un laboratorio di arteterapia non avremmo accettato. Non avremmo voluto appesantire i percorsi e il rapporto con i ragazzi aprendo un altro spazio terapeutico.

Consideriamo più terapeutico proporre loro esperienze di questo genere, piuttosto che attività già intenzionalmente terapeutiche.

Parlaci di quello che fai concretamente, durante un incontro

E.C: Arrivo con la mia “cassettina” di materiali, senza strutturare nulla in precedenza in merito a quello che accadrà. Voglio creare un momento di confronto libero, come se fossimo in uno studio di pittori, di creativi. Si parla, si discute di un argomento. Ovviamente gli argomenti li introduco io. Ogni volta porto un artista differente, lo scelgo sulla base di quello che via via, conoscendoci, ci diciamo.

Faccio un esempio. Una volta un ragazzo ha provocatoriamente detto: “Io i quadri li farei con il lanciafiamme”. La volta dopo ho portato Burri, che è un artista che ha lavorato davvero con il lanciafiamme, la fiamma ossidrica. Oppure, un altro ragazzo ha detto: “A me piacciono le bombolette di vernice”. Bene. La street art è un mondo. Lo abbiamo aperto piano piano.

Non è una lezione di arte. Ci ispiriamo ai vari artisti, partiamo da loro, poi seguiamo le nostre strade.

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Come avete proposto il laboratorio ai ragazzi? L’adesione è stata volontaria?

A.D.P: Non li abbiamo obbligati, li abbiamo invitati attorno a un tavolo e poi, un po’ alla volta, anche quelli più refrattari si sono incuriositi e si sono uniti.

Raccontaci il primo incontro

E.C: Erano tantissimi, in quel periodo. L’abbiamo fatto al Living, uno degli spazi che abbiamo a Figino. Io sono stata un po’ forte. Ho chiesto a tutti di prendere una frase di una canzone, di un libro, e di cercare di rappresentarla in un modo non totalmente esplicito, lasciando spazio alla fantasia.

È stato il primo impatto con loro.

Poi da lì, avendo tutte quelle frasi su cui lavorare, ho potuto iniziare a mettere a fuoco in che direzione andare. Anche perché la direzione è poi sempre la loro, quella dei ragazzi, non la mia. Non porto agli incontri il mio artista preferito, porto quello che mi sembra rispondere a quello di cui parlano e che fanno uscire loro.

E dopo le frasi?

E.C: Dopo le frasi hanno subito dipinto, avevo portato la fusaggine che è un materiale più immediato da usare. In genere lavoriamo su carta.

Che rapporto hai con i ragazzi?

E.C: Con il tempo siamo riusciti a costruire un rapporto “intimo”, di grande confidenza e fiducia. Sono molto contenta di questo. È un rapporto che si conferma a ogni incontro. Anche nei giorni in cui a livello di produzione artistica non esce molto, si ragiona su quel particolare sentimento, su quel fatto, su come vive in noi una certa emozioni, a quali ricordi si lega, e così via.

In ogni incontro c’è sempre l’occasione si lavorare su  qualcosa di significativo. Si parte magari da un artista che ha espresso in quel certo modo la sua idea di malinconia e poi se ne parla, si allarga, perché la malinconia è per ognuno una cosa diversa. Ognuno in qualche modo si esprime e guarda a sé rispetto a quell’argomento che abbiamo scelto.

E con quello che dipingono?

E.C: Lo dico sempre ai ragazzi: nell’arte tutto vale.

Un ragazzo un giorno ha fatto un collage di fotografie di orologi. Non c’è il bello o il brutto. A me interessa solo che dietro quello che si compone ci sia un pensiero, una struttura.

Per arrivare a fare dei quadri a partire da un pensiero, con l’idea di una struttura, devi avere degli strumenti. Gli strumenti che sto utilizzando sono il far conoscere gli artisti, le opere, ma anche il parlare della loro vita.

Quindi sono loro a tracciare, con il tuo aiuto, un itinerario?

E.C: Sì. Dai ragazzi parte una suggestione e io propongo un artista che le corrisponda. Una volta ho proposto Klee e un ragazzo, particolarmente “schematico”, ha fatto un bel lavoro ispirandosi al suo stile.

Porto dei libri, guardiamo le opere, parliamo di alcuni episodi della vita dell’artista, in modo non scolastico.

Li ho fatti lavorare anche con artisti viventi: sto cercando di coinvolgere tutta la mia cerchia di amici artisti in questo progetto. Una volta ho portato un fotografo, per un ragazzo che era interessato alla fotografia.

A me interessa che loro vedano cose diverse. Il fotografo, Alexo Thano, ha presentato il suo lavoro, loro hanno fatto domande, hanno approfondito le tecniche, alla fine poi, insieme, hanno scattato fotografie.

Quando ci siamo focalizzati sulla street art abbiamo visto e parlato tutti i principali artisti della street art.

E, un giorno, ho portato da loro Bros (pseudonimo di Daniele Nicolosi, un writer italiano diventato famoso per aver tappezzato Milano con i suoi caratteristici omini cubici colorati). Presto verrà al laboratorio Marco Quaranta, un altro amico pittore.

I ragazzi hanno incellofanato la comunità, hanno preso le bombolette e si sono messi con lui a dipingerne i muri.

A.D.P:  Incellofanare è stato un po’ anche ripetere il gesto artistico di Christo. (risata di Eleonora).

Cosa resta ai ragazzi di questo lavoro espressivo che fai con loro?

E.C:  Qualcosa rimane. Di sicuro. Molto a livello “sommerso”. Però anche in modo esplicito, nei nuovi interessi che maturano. Un ragazzo, ad esempio, ha fatto una tesina su Basquiat.

Cosa fai con i ragazzi che proprio non riescono a tenere in mano una matita?

A.D.P:  Il nostro laboratorio non ha finalità didattiche. In prima battuta è importante, e anche emozionante, vedere che qualcosa emerge da loro. Già questo passaggio per i ragazzi è nuovo: riconoscere che in questo clima familiare, giocoso che crea Lola, emergono immagini, sensazioni, ricordi che loro si sentono di condividere nel gruppo o di rappresentare. È un clima anche un po’ provocatorio quello che crea Lola, lei se lo può permettere per il suo ruolo “artistico”  e non educativo, e i ragazzi lo accettano, dando continuità alla loro partecipazione.

Prima dunque questo: l’emersione; poi si lavora sull’aspetto più propriamente espressivo.

E.C:  Se proprio qualcuno di loro non riesce a fare una certa cosa, non so, una faccia, un profilo, io allora aiuto, do un po’ di struttura. Nella storia dell’arte esistono anche quadri bruttissimi che arrivano da una certa storia, e quindi hanno un loro valore per questo. Un impatto.

Per dare un senso a quello che facciamo e produciamo anche nella maniera più spontanea, cerco sempre, anche di fronte al disegno più brutto, di fare dare loro un titolo a quello che hanno disegnato. Di definirlo in qualche modo. E vedo che i ragazzi ci stanno a fare questo passaggio.

Io parto dal presupposto che l’arte sia di tutti. Che ci siano situazioni, sentimenti, emozioni che sono di tutti. Gli artisti sono riusciti a farne qualcosa di originale, di forte. Ma partendo da un dato, da un bisogno che è di tutti.

Se ti piace una canzone piuttosto che un’altra, un quadro piuttosto che un altro, è perché un “gancio”  con te quell’opera ce l’ha. Dopo di che, a partire da questa prima “reazione”, bisogna ragionare. Io chiedo: se ti piace questo artista, vediamo se a partire da lui riusciamo a tirar fuori qualcosa che ti appartenga.

I ragazzi rimangono veramente colpiti da certe cose e si incuriosiscono. Io lavoro su questa curiosità.

A.D.P:  Lola lavora a livello intimo. Parte dalle loro emozioni. Lei dice: guardate che queste emozioni sono state già provate da altri, da artisti che a partire da loro fatto queste opere. Non si fanno distinzioni di valore. Si dice al ragazzo: la tua esperienza l’hanno vissuta altri. Oltre a questo, se ti racconto la vita di Basquiat la tua diventa una favola.

Non è tanto il segno artistico a essere in primo piano, ma quello che ci sta dietro. Lei mostra ai ragazzi il dizionario del segno. Fa veder loro che esiste un linguaggio con il quale esprimere quella certa emozione. Dice al ragazzo: Ti faccio vedere come potresti rappresentare quello che senti. Se poi userai o meno questo strumento che ti offro, andrà bene lo stesso.

Lavorate su un materiale delicato, a volte ne uscirà qualcosa di molto “critico” per il ragazzo o per il suo percorso

A.D.P:  L’obiettivo è quello di tirare fuori qualcosa, un materiale interiore che dice cose che verbalmente non vengono espresse. Non ci interessa però decriptare il messaggio. Il solo fatto che si siano espressi è di per sé è un benessere.

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Torniamo al metodo

A.D.P:  I ragazzi necessariamente si muovono su forme e con mezzi espressivi che risentono di un’omologazione, usano quello che conoscono. Bisogna spostarli da lì, e Lola, anche provocandoli, mostrando loro qualcosa di inaspettato, ci riesce.

E.C:  Come se fossimo in studio, si fanno delle prove, non ci si pone nella fase iniziale la questione della bellezza del dipinto che potrebbe uscire.

Il lavoro poi si struttura in questo modo. Partendo dai primi segnali, da degli input, il dipinto si sviluppa in una certa maniera, io vedo in che direzione sta andando, per quanto riguarda il segno grafico, e posso dire: secondo me se fai questa cosa, se lo strutturiamo in questo modo, gli diamo più corpo, diventa più coerente con il tuo discorso. Rispetto a dove vuole arrivare un ragazzo, cerco di capire con lui cosa si può fare.

La mia non è un’accademia. Non mi metto a insegnare come si disegna un viso, una mano, un corpo ecc.

A seconda di quello che vedo, di quello che i ragazzi stanno facendo, intervengo e faccio vedere come si disegna un certo particolare.

Per completare un’opera e far sì che un disegno possa dirsi finito, esistono dei canoni da conoscere, perlomeno. Per esempio, se fosse per loro il fondo non ci sarebbe. Farebbero il loro disegnino nel vuoto totale. Certo, se vuoi concludere un dipinto senza il fondo, puoi farlo, però devi saperlo. Deve essere una scelta. Non si finisce l’opera perché non si ha più voglia di disegnare.

Cerco di far capire che in realtà l’artista fa fatica, il suo gesto non è semplice immediatezza, deve lavorare su se stesso.

A.D.P:  Dopo questa ora e mezza di lavoro, quando mi portano i loro dipinti, in effetti sono completi. Anche io che non sono un esperto di arte quando li vedo mi dico, ok, questo disegno è concluso.

E.C:  Ci si lavora sopra, si fanno delle scelte per andare nella direzione, se pur istintiva, nata da quel certo artista. Alla fine, però, il disegno diventa completo, si definisce.

In questo si produce soddisfazione. Quando glieli ho fatti incorniciare, erano molto soddisfatti. Vedevano il loro lavoro compiuto. Ho colto visibilmente la loro soddisfazione.

Hai trovato qualche vero talento?

E.C:  Per fare il mestiere dell’artista occorre testa, struttura. Alcuni ragazzi sono dotati, sì, ma dovrebbero lavorarci molto per puntare seriamente a quel mestiere.

L’esperienza del laboratorio ti arricchisce anche per il tuo lavoro artistico?

Non influenza direttamente la mia arte, perché la mia ricerca è un’altra, ma umanamente mi arricchisce, certo. Le dinamiche che si creano, le cose che vengono fuori duranti gli incontri.

Qualche nome dei pittori che hai fatto conoscere ai ragazzi?

E.C:  Burri, Basquiat, Mirò, Chagall, Klee, Fontana… e tanti altri. Ogni settimana porto un artista diverso. Poi, i miei amici pittori.

Mirò è stato molto utile al mio lavoro, per la sua idea che le forme della realtà sono già state riprodotte e che la realtà è qualcosa di invisibile. Questo elemento dell’invisibilità appartiene un po’ a tutti. Ho chiesto ai ragazzi di partire da un gesto istintivo, di metterlo sul foglio, e da quello lasciarsi ispirare per trovare delle forme.

Siete mai “usciti” dal laboratorio?

E.C: ​Sì, è stata una bella esperienza. Grazie agli amici delle Officine Creative del Guado, coordinate da Francesco Oppi, che da quasi vent'anni organizzano a Inveruno il Padiglione d'Arte Giovane Inverart, una manifestazione per cui si fa una call di artisti giovani, che vengono selezionati ed esposti.

La cascina Guado è sensibile ai temi sociali da cinquant'anni. Abbiamo chiesto di partecipare come laboratorio. All’inizio i ragazzi erano un po’ recalcitranti all’idea. All’inizio non voleva partecipare nessuno, poi di colpo mi sono ritrovata sette opere da proporre.

È stata davvero una bella occasione. I ragazzi erano molto contenti di far parte del catalogo, di vederci scritto il loro nome. C’è un’immagine dei loro quadri nel catalogo, un trafiletto che parla del laboratorio. È stato bello per loro vederlo. Si sono trovati nella galleria come gli altri artisti, come i ragazzi del liceo. Hanno visto i loro quadri appesi alle pareti, tra gli altri. Hanno discusso, si sono confrontati con altri artisti. Non era una situazione protetta. Avevano le loro opere, lavori con dignità artistica.

Come responsabile della comunità non ti ha creato problemi il laboratorio artistico?

A.D.P:  No. A parte le bombolette che potevano diventare un problema per tutto il borgo di Figino. Scherzo.

È importante che i ragazzi riescano a stare in uno spazio di espressione, di creatività. Bello che l’abbiano portato anche all’esterno, con la mostra. Dobbiamo fare altre sperimentazioni in questo senso.

E.C:  Potremmo organizzare una piccola mostra nel borgo.

A.D.P:  Seguire l’idea di contaminazioni con realtà esterne, di uscire da spazi che siano solo nostri.

E.C:  . Non dobbiamo fare una mostra “minore”, di categoria, ma una mostra tout court, da artisti, partecipando a iniziative di altri. Ad altre collettive come è stato per Inverart.

Sul nostro portale avete uno spazio per “esporre” quando volete. Buon lavoro, Eleonora!


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