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L’Europa sta invecchiando e l’Italia ancora di più. Ne ha dato l’annuncio l’Istat intorno alla metà di febbraio e i dati sono rimbalzati su tutti i media. Le culle rimangono vuote.

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Un amico che alla famiglia ci tiene, e ha quattro figli, me lo ripete da tempo puntando l’indice sulle statistiche cittadine: questa non è più una piramide, caso mai è un fungo, un albero, sta andando tutto a rovescio e non c’è nessuna forza politica che se ne faccia carico. Effettivamente qualcuno c’è, e non sempre in modo condivisibile, ma riparto dai dati, sinteticamente, per fare il punto.

Nel 2019 sono nati 435mila bambini, meno della metà del 1974 e il minimo storico dall’Unità d’Italia. I morti sono stati 647mila. La proporzione dà 67 nascite ogni 100 decessi (solo dieci anni fa erano 96 ogni 100), con una popolazione sempre più esigua e sempre più anziana.

La questione non è nuova, da un quinquennio gli italiani diminuiscono costantemente. D’altra parte, ricordava il 13 febbraio su Repubblica il demografo Della Zuanna, la media di 1,29 bambini per donna c’era anche quarant’anni fa, solo che ce ne accorgevamo di meno perché c’erano più giovani, nati dalle generazioni precedenti. Passando il tempo l’impatto si fa evidente.

Gli stranieri, 8,9% della popolazione italiana all’1.1.2020, dove ci sono danno ancora una buona mano – in Italia 1 bambino su 5 nasce da una donna di origine straniera e, tra le immigrate, la media di figli per donna è 1,89, l’età media al parto è 29 anni contro i 32 anni delle italiane – anche se nel tempo i migranti si adeguano alla cultura del controllo delle nascite.

È stato osservato che i figli si mettono al mondo sempre più tardi, più a 35-39 anni (della mamma) che a 25-29, cioè dopo aver raggiunto un briciolo di stabilità tra casa, lavoro e affetti, e non si vede cosa ci sia di strano o di sbagliato. Fatto forse inedito ma conseguente, si nasce più a Bolzano (1,39 figli per donna) che nel Sud Italia (1,26) dove tra l’altro ci sono meno migranti, appena il 4,4% della popolazione contro l’11% al centronord, e anche questo ha un suo peso.

Il quadro pare debba darci pensiero prima di tutto per ragioni economiche: senza giovani non c’è chi possa entrare nel mondo del lavoro e, in prospettiva, pagare le pensioni alle masse di anziani che si stanno preparando. Eppure non c’è niente di incomprensibile in questo processo.

I migranti arrivano soprattutto al sud ma non si fermano, difatti come abbiamo visto gli stranieri residenti sono pochi. Anche i giovani italiani al Sud sono pochi: in un quadro di rinnovata migrazione dall’Italia i giovani sono i primi a partire e il Sud è quello che paga di più. E perché, tra precariato e poca speranza, non dovrebbero andare via, se hanno sufficiente coraggio, spirito d’iniziativa, libertà da vincoli? Le persone, tutte, di qualsiasi provenienza religione e cultura, vanno dove pensano di poter vivere meglio. Dal nord Africa all’Italia (anche), dal Sud al Nord Italia, dall’Italia al resto d’Europa e non solo.

Noialtri restiamo qui, pingui e invecchiati, in una zona del mondo che nonostante tutto offre ancora parecchi vantaggi quanto a benessere economico e rispetto dei diritti umani, ma chissà perché non ce la sentiamo di esercitare orgogliosamente la nostra capacità di attrazione verso coloro che arrivano da altri luoghi del mondo e sono in gran parte giovani. Bene se restano per poco, bene se piegano la schiena come nuovi schiavi, ma non se pensano di partecipare, di esprimersi, di contare come tutti gli altri. Eppure sarebbe così naturale pensare che, mentre i figli qui non nascono, la vita ci manda nuove leve che da altri territori possono darci un po’ di quell’energia, apertura, speranza, che a noi manca. Non sappiamo accogliere neppure quelli che sono già qui.

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Oltre all’accanimento legislativo e al sadismo amministrativo che il mio maestro mi insegna, ritrovo l’insipienza dei funzionari. In un incontro recente nella mia regione, che non è la peggiore d’Italia, ho ascoltato la corsa a ostacoli dei minori stranieri non accompagnati per ricevere ciò che per legge garantisce. Ci sono scuole dove viene rifiutata l’iscrizione a chi è privo di permesso di soggiorno, o uffici che per un banale errore nella trascrizione del nome – che però comporta incertezze nel codice fiscale – impediscono l’accesso ai servizi sanitari, l’apertura di un conto corrente, la richiesta di un documento d’identità che è poi indispensabile per il permesso di soggiorno, e per qualsiasi altra cosa.

Ho chiesto spiegazioni ai colleghi, mi hanno risposto che quei funzionari (succede un po’ ovunque: nelle scuole, all’anagrafe, in questura, nella sanità…) non fanno quello che dovrebbero perché non se ne assumono la responsabilità. Oppongo: ma seguire la legge non è una responsabilità, lo è semmai agire in senso contrario. Sì, ammettono, ma tanti sono lì da poco, la legge non la conoscono bene, ognuno si regola come vuole. E siccome chi lavora nell’accoglienza è di un ente pubblico o quasi, e dovrà lavorare con quei signori anche domani e dopodomani, non se la sente di fare la voce grossa e minacciare una denuncia per omissione d’atti d’ufficio. Assistere, insistere, aggirare e pazientare sono strategie all’ordine del giorno. Intanto i ragazzi di cui si tratta potrebbero svegliarsi “irregolari” al 18esimo compleanno solo perché qualcuno non ha fatto quanto era suo dovere. E se poi non capiscono e non si adeguano, se a volte deragliano e sbagliano strada, viene il sospetto che siano stati spinti a farlo.

Ma poi c’è chi all’apporto dei migranti non vuole proprio pensare e cerca di capire come convincere i giovani italiani a riprodursi di più, per dare seguito alla nostra nobile stirpe. S’invocano soprattutto agevolazioni e incentivi di tipo economico: assegni alla nascita, asili nido gratuiti, sgravi fiscali, servizi per le famiglie e soprattutto per le donne. In Francia e Germania hanno già cominciato e ci sono riusciti, Ursula von der Leyen – ho scoperto in questi giorni – di figli ne ha avuti 7 e certo non le hanno impedito di proseguire il suo impegno.

Ma può essere soltanto un problema economico? La questione è controversa. Opposte indagini nel nostro paese dicono la prima che 2 giovani su 3 desiderano diventare genitori, l’altra che il 22% dei 25-44enni con bambini se potesse tornare indietro non li rifarebbe. Troppo sacrificio, e un impegno di cura che dura molto più a lungo della media di un rapporto di coppia. Per di più i figli mettono fine a quella stagione di aperitivi, feste, possibilità e illusione di perpetua giovinezza, come recita un monologo di Mattia Torre così ben interpretato da Valerio Mastandrea. Probabilmente più si ha bisogno di essere ancora e soprattutto figli e meno si è in grado di diventare genitori.

Occupandomi a lungo delle vite degli altri ho incontrato famiglie, e donne, con tanti figli nati per caso, per sbaglio, destinati a ogni tipo di povertà di cui quella economica era la più sopportabile. Bambini per i quali era inevitabile pensare che sarebbe stata preferibile un po’ più di consapevolezza nelle scelte procreative dei loro genitori.

L’ultimo pensiero riguarda la questione di genere. Checché ne pensino alcuni politici nostrani, non sarà facile convincere noi donne a ritornare al nostro (vecchio) posto per innalzare le nascite. In una società mutata è ingannevole pretendere di conservare alcune sue strutture buttandone il peso sulla componente femminile. E questo mi fa tornare a mente un episodio buffo e amaro.

Essendo in sovrappeso si può dire da sempre mi è capitato un paio di volte, nella vita, di sentirmi chiedere se aspetto un bambino. La cosa mi ha sempre fatto ridere, ma ha prevalso l’irritazione in un paesino veneto dove un sindaco sussiegoso si è prima congratulato con me per avere mantenuto la conferenza nonostante tutto (lì per lì mi sono chiesta come avesse saputo della mia recente influenza…), e poi mi ha espresso le sue migliori felicitazioni perché la Patria ha bisogno di nuovi italiani. Si è allontanato, lì per lì non ce l’ho fatta a ribattere ma mi sono sentita ripiombare in un ventennio diverso, e l’idea che una donna possa essere vista come fattrice mi ha mosso una tale repulsione, che a ripensarci è ancora tutta qui.


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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