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L’oscenità di un corpo bambino intrappolato tra le lamiere è totalizzante. Lo sguardo resta impigliato alle piccole membra di Karim stritolato dal cassonetto degli abiti usati, oppure fugge via.

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Ci vuole un tempo per il dolore, e per il rispetto del dolore. Tutto questo è dovuto e necessario, vorrei solo che non fosse tutto lì. Lasciamo stare la retorica del piccolo angelo. Dobbiamo anche altro a un bambino di 10 anni che muore a quel modo: guardare dentro alle cose, spingere il nostro desiderio di comprensione ad allargare l’inquadratura nel tempo e in profondità senza perdere di vista quel corpo bambino che punta i piedi contro il nostro petto. Nell’immediato ho provato a dirlo in versi, e Micaela Casalboni, attrice del Teatro dell’Argine, mi ha prestato la voce.

Dopo quel 19 maggio qualcosa abbiamo saputo. Provo a riassumerlo.

Karim Bemba è il secondo di cinque figli tra i 2 e gli 11 anni. Vivono con la madre, una donna siciliana di 37 anni, in provincia di Bergamo, mentre il padre, ivoriano, lavora all’estero. Abitano in una casa del Comune e ricevono tutti gli aiuti di cui l’Ente Locale è capace, anche in forza di un decreto del Tribunale per i Minorenni di Brescia che assegna al servizio sociale il compito di sostenere la famiglia senza dividerla. Karim va a scuola e così probabilmente i suoi fratelli, non c’è ragione di credere il contrario. Se la didattica a distanza sia arrivata fino a loro non sappiamo dire. I vicini di casa affermano di temere da tempo che “succeda qualcosa” a quei bambini, li vedono poco curati e spesso in giro da soli, vivono in una casa arruffata.

Dopo la morte di Karim il tribunale per i minorenni emette un nuovo decreto e colloca la mamma e i fratellini in una struttura d’accoglienza. Nella sua scuola, gli insegnanti sospendono la didattica a distanza e si collegano in videoconferenza con la classe per parlare di quello che è successo, ricordano la dolcezza del compagno scomparso, la curiosità, i messaggi d’affetto che confezionava per loro, e capiscono che questo è il lascito, la lezione di Karim.

Questa sintesi racchiude tante cose buone, doverose ma non scontate: l’accompagnamento del servizio sociale e del giudice minorile, il rispetto per l’unità familiare, la frequenza scolastica, l’attenzione degli insegnanti. Che cosa c’è di storto? Tanto altro ancora.

Partiamo dal macro. Nel dicembre scorso – l’altro ieri, e sembra un secolo fa – Save the Children, registrava nel 2019 record negativi sia per la povertà minorile, con più di 1,2 milioni di minori (il 12,5% del totale) in condizioni di povertà assoluta cioè senza i beni indispensabili per condurre una vita accettabile, sia per la natalità. Denunciava diseguaglianze territoriali nella presenza di servizi di qualità per la prima infanzia, con una copertura che raggiunge il 19,6% nei comuni del nord-est ma poco più del 5% al sud, e un aggravamento dell’abbandono scolastico. Lo affermava mentre apprezzava una manovra governativa che andava in una direzione di maggiore equità investendo più di prima a favore di famiglie e bambini e, aggiungeva, è un segnale positivo, non ancora sufficiente e che deve diventare strutturale.

Il quadro non si è certo addolcito con la crisi sanitaria, educativa, economica e sociale indotta dalla pandemia. Ha cercato di descriverlo ancora Save the Children con “Riscriviamo il futuro”, una ricerca e una campagna sull’impatto del coronavirus sulla povertà educativa.

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Però attenti: i dati razionalizzano, rassicurano, confondono i volti. Non perdiamo di vista Karim, teniamocelo stretto. Noi non sappiamo, l’ho detto in premessa, se lui e i suoi fratelli avessero o meno la possibilità di fare scuola a distanza. In generale possiamo pensare che per un bambino non sia uguale seguire le lezioni o non seguirle, lo dico per tante ragioni, di cui l’apprendimento non è neppure la più importante. Viene prima il suo sentirsi parte della comunità scolastica e il fatto che quella comunità possa oppure no occuparsi di lui.

Dico cose dure. Non so niente di Karim e della sua famiglia, mi pongo tante domande pensando alle molte famiglie che, invece, ho visto da vicino. È poi così ovvio che un bambino povero cerchi di entrare in un cassonetto? Da cosa, da chi è venuta l’idea? Aveva 10 anni, era frequente per lui uscire di casa da solo? È stato trovato alle otto di sera, qualcuno sarebbe andato a cercarlo non vedendolo rientrare? La povertà economica è spesso compagna della povertà educativa ma non c’è un legame necessario: anche famiglie benestanti possono dare poco ai figli, e non sempre le difficoltà concrete implicano carenza di cura.

Le parole dei vicini fanno pensare che la mamma fosse in difficoltà, e come poteva essere altrimenti? Sfido chiunque a occuparsi da solo di 5 bambini tra i 2 e gli 11 anni! Penso agli equilibrismi dei genitori che conosco, e sono in due con un figlio solo, tra accompagnamenti (pre-covid), lezioni a distanza (covid), scelte educative, amicizie da coltivare, giochi e passatempi. Le risorse non sono solo il denaro, sono anche il tempo, lo spazio mentale, la possibilità di condivisione. Nella famiglia di Karim sembra lontana la famiglia allargata – siciliana la mamma, ivoriano il babbo – e i bambini da seguire sono 5, tutti piccoli. Nessuno potrebbe farcela da solo. Siamo in una società che ha bisogno di nonni e zii d’elezione, che per me vuol dire famiglie affiancanti, educatori domiciliari, allenatori, vicini di casa… insomma, rete, non soltanto per risollevare il bilancio familiare. Non basta la povertà economica a spiegare perché un bambino di 10 anni viene ritrovato alle otto di sera incastrato in un cassonetto.

Il tribunale per i minorenni di Brescia ha inserito la mamma e i fratelli in una comunità. Ha fatto bene, questo li tiene vicini e li sostiene. Serve infinitamente di più adesso, ciascuno di loro e tutti insieme avranno bisogno di affrontare il vuoto, la mancanza, il senso di colpa, l’ingiustizia, la vergogna per la morte di Karim, e forse serve a prescindere per colmare l’assenza del villaggio.

Un ultimo pensiero voglio dedicarlo al bisogno di angelicare le vittime che si osserva dopo qualsiasi violenza: malattia, guerra, omicidio, cassonetto tritacarne. Non ho conosciuto Karim ma voglio pensare che non fosse un angelo, ma un bambino. Disseminava sorrisi e messaggi d’affetto, me ne congratulo, e per parlarne ai compagni va bene così, ma non dobbiamo avere bisogno di questo. Karim aveva il diritto di vivere non perché era affettuoso e disponibile ma perché era un bambino; fosse stato bizzoso, antipatico, irascibile, monello… non avrebbe tolto o aggiunto niente al fatto che ci fosse un posto per lui. E qualunque cosa fosse diventato: un eroe un perdigiorno o un terrorista.

Il divieto di angelicare le vittime riguarda anche coloro che oggi stanno soffrendo di più. Il dolore non è un merito, quando ci sovrasta sembra scontato che si sia abbattuto sull’innocenza e in un certo senso è vero, nessuna umanissima incompiutezza ci fa meno che innocenti di fronte ad una tragedia. Dico solo che chi ne ha il ruolo e le competenze dovrà interrogarsi su quello che è successo e farà bene a farlo, nell’interesse dei fratellini e per rispetto di tutte le persone coinvolte. Karim incluso.


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è la direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati e referente dell’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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