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Per gentile concessione degli autori e dell'editore, pubblichiamo l'introduzione di "Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica" (Raffaello Cortina Editore).

Abbiamo deciso di concentrarci in questo libro su un tema delimitato: come si procede per rispondere a una domanda di aiuto? Cosa è meglio fare? Cosa è sconsigliabile? Chi facciamo venire? Chi lasciamo a casa? Come gestiamo il primo contatto? Cosa chiediamo e cosa spieghiamo? Allo stesso modo per il primo colloquio. E poi, come si passa dal primo colloquio ai successivi per la cosiddetta consultazione?

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Oggi sembra davvero casuale e arbitrario, per ogni singola psicopatologia, il trattamento che verrà somministrato. Prendiamo un campo che conosciamo molto bene: una ragazzina che esordisce in un’anoressia restrittiva. Potrebbe ricevere una psicoanalisi individuale, un trattamento nutrizionale in un grande ospedale, una terapia di gruppo, un intervento psichiatrico farmacologico, una terapia familiare, un trattamento familiare e individuale… e queste sono solo le più probabili evenienze, ce ne sono molte altre. Chi potrebbe dire quale intervento è più efficace? Le famiglie scelgono influenzate da canali culturali, personali, casuali. I professionisti paiono fare quello che sono capaci di fare: viene in mente il famoso detto “se ho solo un martello ogni cosa rischia di trasformarsi in un chiodo”.

Il tema che proponiamo potrebbe allora essere riassunto in: procedure e convocazioni nelle prime fasi di una presa in carico.

È su questo che vorremmo proporre le nostre esperienze, le nostre certezze, ma anche i nostri dubbi, nella speranza di attivare un confronto costruttivo, una ricerca comune, sia al nostro interno che con le altre scuole di psicoterapia, sistemiche e non. Chi ben comincia è a metà dell’Opera, recita un noto proverbio, quindi il tema iniziale dell’analisi della domanda, e di come rispondervi nel modo migliore, interessa a tutti gli psicoterapeuti. Si può iniziare davvero in molti modi diversi: ma quale sarà quello più efficace per stabilire una collaborazione ottimale?

Prendiamo come esempio una situazione recente, giunta proprio quando stavamo terminando la stesura di questo libro, che bene illustra i dilemmi che incontriamo quotidianamente nel nostro lavoro.

Ricevo (1) la telefonata di un collega e amico (2) che mi chiede di vedere suo figlio tredicenne. Resto sorpreso: il collega sa bene come lavoro, e dunque che privilegio un primo contatto con la famiglia. Ma il ragazzo ha chiesto esplicitamente di parlare con uno psicologo in separata sede, senza discutere con i genitori il motivo della richiesta. Mi fido dell’intuito del mio amico, che ha un ottimo rapporto con il figlio, ma ciononostante esito ad acconsentire. Il ragazzo è stato adottato a sei anni, assieme a una sorella maggiore di qualche anno. Brasiliani, neri, con alle spalle un calvario di istituti e case famiglia, sono stati oggetto di preoccupazione e trepidazione da parte delle famiglie estese dei genitori e dei loro numerosi amici. I genitori, non più giovanissimi, sono entrambi al secondo matrimonio, lui divorziato e lei (che è medico di base) vedova, senza esperienza di precedenti figli. Invece l’adozione ha dato ottimi risultati, raggiunti con fatica, intelligenza e dedizione, ma senza incontrare ostacoli quasi insormontabili come in altri casi sfortunati. Bei ragazzi, intelligenti, hanno eccellenti risultati negli studi e nello sport. La ragazza, Flor, danza (la nonna materna, che ha accolto affettuosamente i nipotini, dirigeva una nota scuola di ballo), il maschio, Paulo, è una promessa del calcio. Un anno fa i genitori propongono a Flor una consultazione psicologica con una collega del padre: c’è in lei un fondo di amarezza e di chiusura che fa loro pensare che non abbia superato i traumi dei suoi primi nove anni, con i ripetuti abbandoni e i pesanti maltrattamenti subiti. Flor, pur con una certa ambivalenza, accetta. E ora è Paulo che domanda. Il papà mi propone un primo colloquio con loro genitori per raccontarmi la storia del figlio, prima e dopo l’adozione. Ma accogliere subito dopo la richiesta di Paulo di vederlo da solo non rischierà di confermare un movimento di frammentazione della famiglia, già fragile per la condizione di un’adozione relativamente tardiva? Oppure è utile per parificarlo alla sorella maggiore? Inoltre ciascuno dei genitori ha alle spalle una terapia individuale riuscita, ed è comprensibile che vogliano offrire ai figli un’analoga opportunità.

D’altra parte, la scelta che fanno della mia persona è significativamente connessa alla mia esperienza nel campo del maltrattamento: vedere Paulo da solo non implicherà mettere eccessivamente l’accento sui suoi traumi infantili, ponendo tra parentesi le risorse dell’appartenenza alla famiglia in cui vive? (Cirillo)

Se il nostro lavoro è risolvere problemi, combattere la sofferenza, aiutare le persone a ritrovare un benessere, a esprimere il meglio delle loro possibilità, dobbiamo attivare risorse, far emergere le parti migliori delle persone e delle loro relazioni.

Spesso, quando i genitori sono preoccupati per un figlio adolescente, che per esempio è stato bocciato, consuma cannabis in eccesso, appare spento, questi, a differenza di Paulo, non ce la fa proprio a chiedere aiuto, ma tende a chiudersi in se stesso. Qual è il modo migliore per aiutarlo, per attivare le sue parti vitali, intelligenti, creative, affettive che oggi paiono sepolte?

Le procedure usate dagli psicoterapeuti sono differenti: la maggior parte dei colleghi affronterà la sfida di vedere quel ragazzino da solo, cercando di vincere la sua oppositività, la resistenza che gli viene dal pensare che chi va dallo psicologo è un povero “sfigato”, la diffidenza verso gli adulti, la chiusura… Altri colleghi invece la prima volta vorranno vedere i genitori, per stabilire un’alleanza con loro, per capire meglio come avvicinarsi a quel ragazzo. Altri faranno venire tutta la famiglia.

Noi invece preferiamo vederlo anzitutto insieme ai suoi genitori, senza gli eventuali fratelli o sorelle: ci pare meglio, sia perché rispetta il fatto che non è lui che chiede aiuto, sia perché è per lui che si chiede aiuto. Quattro colleghi diversi, stesso caso, quattro procedure diverse: chi avrà ragione? Si potrebbe sostenere che un buon risultato si possa ottenere passando per ognuna delle quattro strade. E indubbiamente c’è del vero. Tuttavia le esperienze, la letteratura mostrano che il primo colloquio è un momento delicatissimo: si può calcolare attorno al 50%il numero di primi colloqui a cui non ne seguirà un secondo (Talmon,1990). La ricerca sulle procedure è quindi molto importante: dobbiamo cercare modi di valutare, convocare, intervenire che siano i più efficaci possibile. Il dramma della psicoterapia è proprio quello di una caotica cosiddetta creatività, dove vediamo fare di tutto e il contrario di tutto! La psicoterapia non potrà mai essere manualizzata come la coltivazione delle patate, ma si può cercare un compromesso. La ricerca potrà dirci che, date certe condizioni, certe procedure sono più efficaci di altre.

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Potremmo fare ancora l’esempio di un padre che chiede un appuntamento per il figlio trentenne depresso (ne riparleremo a p. 27). Anche qui gli psicoterapeuti utilizzano cinque procedure diverse (come minimo):

  • dare l’appuntamento al figlio usando il padre come tramite;
  • dare l’appuntamento al padre da solo;
  • dare l’appuntamento ai soli genitori;
  • convocare tutta la famiglia fratelli compresi;
  • convocare il paziente con i genitori senza i fratelli.

 Noi scegliamo questa quinta opzione, e nel libro ne spiegheremo le motivazioni, ma dobbiamo evitare che le varie risposte vengano date in modo rigido, automatico, precostituito, ideologico, psicopedagogico, oppure, all’estremo opposto, affidandosi esclusivamente alla creatività e all’intuito del terapeuta. Crediamo che delle procedure si debba ragionare attentamente, sulla base dell’esperienza clinica, della ricerca qualitativa, delle reazioni dei pazienti, dell’analisi degli errori, dello studio dei followup, in attesa che si facciano serie ricerche quantitative con gruppi di controllo, per ora inesistenti, o quasi, per confrontare l’efficacia delle diverse procedure utilizzate dai diversi modelli di psicoterapia.

 Gli esempi sono tanti: abbiamo appena visto quello della prima convocazione per un adolescente, ma si potrebbe anche parlare di quando un paziente in terapia individuale parla tutto il tempo dei suoi problemi di coppia: bisogna inviarlo in terapia di coppia continuando la terapia individuale, come suggerisce Yalom (2015, p. 184) nel suo ultimo libro? Oppure consigliare una terapia individuale anche al partner? Oppure invitare noi il partner a qualche seduta nella nostra terapia individuale, magari facendoci affiancare da un terapeuta nostro collega di équipe? Oppure trovare un modo efficace affinché la terapia individuale aiuti la coppia? Oppure…? Ancora una volta le opzioni sono molte.

 Ribadiamo che la complessità della psicoterapia non potrà mai essere davvero standardizzata e manualizzata (Lingiardi, Madeddu, Fossati etal., 1994), ma anche abbandonarla alle istintive preferenze del terapeuta (magari risonanti con le sue scelte di vita…) ci pare assai pericoloso. Da tanti anni è stato osservato come la separazione sia esito frequente della terapia individuale di un adulto coniugato, ma la percentuale sale moltissimo quando il terapeuta è a sua volta separato!

 Non crediamo che davvero si possa fare tutto e il contrario di tutto: le strade della psicoterapia sono lastricate di errori, abbandoni, fallimenti… Se i genitori sono preoccupati per un bambino, è meglio vedere il bambino da solo, magari per proporgli alcuni test? Oppure vedere prima i soli genitori? Oppure vedere il bambino con i genitori? Vedremo che rispetto a queste ultime due procedure ci sono pareri discordanti anche tra i docenti della nostra stessa scuola.

La stessa situazione per la richiesta di una terapia di coppia: meglio un lungo colloquio telefonico con il partner più richiedente, seguito da un incontro della coppia con la coppia coterapeutica, modello proposto in questo manuale da Paola Covini, oppure un primo incontro della coppia con un solo terapeuta, seguito da un incontro con la coppia coterapeutica, secondo il modello di Laura Fino e Alberto Penna descritto più avanti?

Tornando a Paulo, dopo essermi consultato con i miei colleghi d’équipe e con il terapeuta di Flor, che conosco bene, decido di proporre al telefono al padre di soprassedere all’incontro preliminare con i genitori e di proporre alla moglie e al figlio di venire la prima volta tutti e tre assieme: eventualmente se Paulo lo desidererà potremo fare uscire i genitori per una parte dell’incontro e avere un colloquio riservato. Tutti accettano, e così avviene. L’incontro sarà assai tranquillo, senza tensione né reticenze. Quando domando alla mamma come abbia preso la richiesta di Paulo di parlare con uno psicologo, dice sorridendo che sulle prime è rimasta un po’ male: perché non poteva bastare l’aiuto di loro genitori? In realtà i genitori sono sufficientemente a conoscenza di cosa spinga il figlio a chiedere un appuntamento per sé: si sta scontrando con sempre maggiore frequenza con odiosi episodi di razzismo, con insulti rozzi e ripetuti e non sa come reagire. Paulo, che è aperto e a suo agio, dichiara che vorrebbe un terzo parere perché i genitori gli danno due consigli opposti: reagire anche fisicamente alla provocazione (il padre); ignorare e allontanarsi (la madre).

I genitori chiariscono e argomentano: da bambino Paulo aveva delle tremende crisi di rabbia, che negli anni è riuscito a controllare. Ora che è diventato un gigante, temono che possa fare seriamente male a qualcuno quando gli va il sangue agli occhi: da qui il pensiero del padre che è meglio una reazione immediata e non troppo accesa che reprimere l’aggressività con il rischio di un’esplosione successiva.

Quando i genitori escono come concordato, Paulo non aggiunge elementi significativi, mentre ricapitoliamo contesti e svolgimento delle ultime aggressioni subite. Fa emergere però un contenuto interessante rispetto alla vita in famiglia, la sua ostilità verso la sorella che a suo dire non è riconoscente versoi genitori adottivi e li addolora con le sue provocazioni e con i suoi segnali di ingratitudine. Il ragazzo, che è stato in questo certamente aiutato dai genitori, capisce benissimo le ragioni della differenza tra il suo atteggiamento e quello di Flor verso l’adozione: l’ultima loro collocazione in Brasile era stata diversa, lui stava in istituto, dal quale desiderava ardentemente essere salvato per trovare una famiglia, sua sorella era in una famiglia affidataria nella quale sperava di rimanere e se ne è sentita strappata contro la sua volontà.

Quando facciamo rientrare i genitori, questi confermano: la differenza tra le aspettative dei due ragazzi in merito al loro futuro è stata oggetto più volte di chiarimenti tra loro. Restano però colpiti dal fatto che forse la figlia (che si rivolge al fratello chiamandolo “lecchino” perché è troppo compiacente verso i genitori) potrebbe essere sollevata dal sentire che Paulo, pur condannando il suo agire, ne capisce le ragioni ed è capace di una certa empatia verso di lei. Le proporranno di venire al successivo appuntamento, in quanto Paulo ha chiesto esplicitamente di continuare in questo modo: forse potranno utilmente confrontarsi su come Flor fronteggi analoghi episodi di razzismo. (Cirillo)

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PER PROCEDERE SERVONO DELLE MAPPE

Ma se le procedure non possono e non devono essere rigide e ripetitive, come i precetti di una religione, né all’opposto casuali, non possono che essere basate su delle valutazioni, a cominciare da quella della domanda di aiuto. Infatti esistono molte domande di aiuto, assai diverse tra loro, ma che per fortuna possono essere raggruppate in un numero limitato di categorie (secondo noi quattro, con alcune sotto varianti). A ogni categoria corrisponderà appunto un certo modo di procedere. Allora l’analisi della domanda è la mappa, la prima porta della terapia, la prima valutazione a divenire immediatamente operativa. Ce ne occuperemo nel primo capitolo di questo manuale.

La seconda porta, la seconda mappa, è quella sistemica, che inizia a essere utilizzata assieme alla precedente: perché è il padre a chiedere un appuntamento per quel figlio adulto depresso? Come mai non il figlio stesso o la mamma (come statisticamente è più frequente)? Qual è allora la specifica posizione del figlio nella famiglia? Cosa limita la sua capacità d’iniziativa, per esempio nel chiedere aiuto per la sua depressione? Una prima ipotizzazione potrebbe suggerire che la passività materna e l’iperattivismo paterno siano collegati alla depressione di quel “ragazzo”. Tuttavia la porta sistemica potrebbe risultare poco efficace, e il terapeuta dovrà allora utilizzare altre porte.

La terza è quella della sintomatologia: cosa ci insegna la storia di quella depressione e di come è stata finora trattata? Cosa sappiamo in generale del trattamento della depressione in uomini adulti non sposati?

La quarta è quella dell’attaccamento: il paziente si colloca sul versante ambivalente o evitante? E una simile diagnosi cosa ci aiuta a capire del suo percorso di sviluppo? Questa valutazione orienterà l’impostazione dell’alleanza terapeutica con lui.

La quinta porta è la personalità: individuiamo un tratto chiave della sua personalità che lo predispone alla depressione? E quel tratto come lo avrà appreso?

La sesta è quella trigenerazionale: possiamo vedere questa depressione come parte di un percorso che parte dai nonni e arriva a questo giovane, magari nella trasmissione di una difficile identità maschile?

Infine la porta delle emozioni del terapeuta: come potrò leggere il sentimento che provoca in me quel figlio depresso visto insieme ai suoi genitori? Se la sua passività produce irritazione, ostacolando una più naturale empatia per la sua sofferenza, tale emozione dipende più da come funziona quel ragazzo o da come funziono io terapeuta come persona?

Nel secondo capitolo del libro cercheremo di spiegare come si possono e si debbono usare queste sette porte della terapia e come il modello sistemico debba evolvere verso una maggiore complessità, apprendendo da altri modelli vitali della psicoterapia un pensiero per andirivieni(come dice Morin, 1985), multidimensionale, un pensiero capace di falsificarsi e rinnovarsi continuamente…

Nel terzo capitolo ci occuperemo della fase della consultazione (i primi tre/cinque incontri) e nel quarto dei tre fondamentali formati delle terapie sistemiche: parallelo, congiunto, individuale con allargamenti.

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VERSO UN’UNICA PSICOTERAPIA  FONDATA SULLA RICERCA

Si deve a un terapeuta umanista esistenziale come Irvin Yalom (2005)una bella definizione di psicoterapia: “Far succedere qualcosa di emotivamente importante per poi ragionarci sopra”, che riecheggia un’analoga espressione di Mara Selvini Palazzoli. Storicamente i terapeuti della famiglia hanno imparato a far succedere soprattutto tre cose durante le prime fasi del lavoro, tre cose che caratterizzano la nostra identità, ma che dobbiamo stare ben attenti a non fare diventare “martelli” invariabili.

  • Far parlare con il terapeuta un ragazzo in crisi, alla presenza dei suoi genitori, chiedendogli sia di lui stesso, sia del rapporto che ha con i familiari. Sorvegliare che venga ascoltato con rispetto. Il terapeuta darà il buon esempio prestandogli molta attenzione, guidandolo con delicatezza, badando che tutti si sentano tranquilli e sicuri. Per quella famiglia potrebbe trattarsi di un’esperienza nuova, correttiva.

  • Facilitare il crearsi di un contesto di riflessione in cui i familiari s’interrogano collettivamente sulla storia del loro rapporto con quel figlio/fratello/sorella, cercando di capire dove e come hanno involontariamente sbagliato, come hanno fatto a metterlo in difficoltà. Potrebbero scaturirne delle importanti riflessioni autocritiche che aumentano l’empatia dei familiari verso il paziente e fanno scemare l’ostilità/ipercriticismo nei suoi confronti.

  • Chiedere al genitore di raccontare al terapeuta, ma alla presenza del coniuge e dei figli, la storia della sua infanzia, le sue gioie ma anche le sue fatiche, i rapporti con i suoi genitori, cosa ha ricevuto di buono da loro, ma anche le ferite e le cicatrici che potrebbero esserne derivate. Vedere in quel genitore, o in quel partner, il bambino ferito che è stato potrebbe chiarire antichi misconoscimenti, aprire nuovi percorsi riconciliativi.

Le prime terapie familiari in Italia, condotte dalla nostra maestra Mara Selvini Palazzoli, sono della seconda metà degli anni Sessanta: sono quindi ormai cinquant’anni che il nostro gruppo lavora per migliorare e conservare questo patrimonio di esperienza clinica. Sono davvero moltissime le testimonianze, le interviste di followup (Selvini Palazzoli, Cirillo, Selvini et al., 1998) che mostrano come da simili intense esperienze emotive/cognitive possano scaturire cambiamenti importanti. Tuttavia la gran parte del mondo della psicoterapia (le scuole psicoanalitiche, o quelle cognitive) non conosce questi strumenti, in generale si interviene solo sul paziente, e nemmeno si pone il problema di un cambiamento della famiglia. Specularmente è possibile che noi sistemici sottovalutiamo l’efficacia degli strumenti migliori di molti modelli di psicoterapia individuale. Questa settaria non comunicazione deve essere combattuta!

 

1. Abbiamo deciso che nel racconto dei casi clinici useremo la prima persona singolare: questa scelta non vuole annullare la dimensione d’équipe (che, come vedremo, è sempre presente nelnostro operare), ma sottolineare la dimensione soggettiva dell’incontro interpersonale tra terapeuta e pazienti.
2. In questo come in tutti i casi esemplificativi sono stati modificati i nomi e gli altri elementiche potrebbero portare al riconoscimento dei protagonisti.


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