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Due intense storie parallele di fuga/ricerca e di simbolico rituale di passaggio dall’infanzia all’adolescenza per Hadji, e dall’adolescenza all’età adulta per Kolia, nell'Inferno della II guerra cecena.

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1999, un soldato russo con videocamera in mano, registra in un piccolo villaggio l’esecuzione di un’operazione denominata “antiterrorista”, mentre un bambino di 9 anni, Hadji (interpretato da Abdul-Khalim Mamatsuiev), si dà alla fuga con il fratellino neonato. Il resto della sua famiglia viene trucidato dai soldati russi, che hanno l’ordine di eliminare gli adulti dei villaggi della zona, considerati tutti indiscriminatamente “terroristi”. Un proverbio ceceno particolarmente simbolico in questo frammento di racconto, dice: “quando un’orsa decide di uccidere un cucciolo, lo trascina nel fango”. 

L’altro protagonista è Kolja, un giovane di 20 anni che, con un pretesto (evitare il carcere per un pezzo di fumo), viene costretto ad arruolarsi nell'esercito russo e viene spedito a Nazran, a 35 km dal confine, dove deve svolgere il duro addestramento militare per poi essere inviato sul fronte, faticando ad accettare le regole di comando e le derive delle azioni dei commilitoni.

Quando i camion dei soldati russi se ne vanno dal villaggio, saccheggiato e abbandonato ai pochi abitanti risparmiati, Hadji è ancora sotto shock e in cammino senza meta con in braccio il fratellino, che decide di abbandonare davanti alla porta di casa di una famiglia di contadini, per salvarlo. Hadji viene poi raccolto da un gruppo di volontari del Comitato Internazionale della Croce Rossa e portato nella città dove si trova un centro di accoglienza gestito da Helen (interpretata da Annette Bening). Mentre vaga per le strade intorno al centro di accoglienza, incontra Carole (interpretata da Bérénice Bejo, moglie del regista), che lo accoglie nella propria abitazione. Carole è Capo delegazione dell'Unione Europea per i diritti umani, e si trova in Cecenia per documentare con interviste tutti gli orrori del II conflitto ceceno. Carole raccoglie testimonianze da portare a Strasburgo, per costringere i parlamentari europei ad aprire gli occhi sullo stato di guerra in corso in quel paese non così lontano dall’Europa, sulle continue stragi di civili portate avanti con la scusa dell’operazione interna antiterrorismo da parte del presidente Boris Eltsin e del nuovo astro nascente della politica russa, il primo ministro Vladimir Putin.

Il regista francese Michel Hazanavicus di origini lituane, è già conosciuto a livello mondiale per il successo della sua opera precedente “The Artist” (2011), film muto e in bianco e nero che si svolge a Hollywood alla vigilia del "sonoro", che ha vinto numerosi premi internazionali, tra cui nel 2012 il César come miglior regista francese, e l’Oscar come miglior regista.

“The search”, scritto dallo stesso regista, è un film di denuncia che riesce a trasmettere in modo crudo e toccante, stati d'animo intensi pieni di paura e di rassegnazione nella cornice della guerra cecena, mostrata nell’effetto delle sue devastazioni, soprusi e drammi sociali vissuti dalla popolazione innocente, in particolare dalle donne e dai bambini. Sono tanti i sentimenti che il film esprime, come lo shock per il trauma da guerra e la resilienza, la paura e la speranza, la diffidenza e il senso protettivo materno, nonché l’odio e il desiderio, l’abuso di autorità e  l’amicizia, l’ingiustizia e il rispetto.

Sicuramente sono molti, soprattutto negli ultimi anni, i film che affrontano il tema del viaggio/fuga di minori soli provenienti da paesi in conflitto (“Cose di questo mondo” di Michael Winterbottom”, “Miracolo a Le Havre” di Aki Kaurismäki o  “Welcome” di Philippe Lioret), mentre sono meno frequenti quelli che li ritraggono nel vivo del dramma della guerra (“Il bambino con il pigiama a righe” di Mark Herman, “Kosovo anno Zero” di Giancarlo Bocchi, o “La Rafle - Vento di Primavera” di Rose Bosh).

Presentato nel 2014 al Festival di Cannes e al Festival di Toronto, l’opera di Michel Hazanavicius è un remake nell'originario omonimo (tradotto in italiano con il titolo “Odissea tragica”) del 1948 di Fred Zinnemann, trasposto dai campi di concentramento alla guerra in Cecenia.

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Qui di seguito alcuni stralci di un’intervista rilasciata durante il Festival di Cannes dal regista.  Sul soggetto del film, egli afferma:

"È un tema che mi stava a cuore perché ho incontrato dei ceceni nella mia vita e sono rimasto scioccato dalla differenza fra le persone che ho conosciuto e la descrizione di loro che veniva fatta dai media. Come se tutti fossero dei terroristi. La loro guerra è stata una delle più violente e sporche della fine del XX secolo e non era mai stata raccontata in un film."

Come ha scelto i luoghi in cui girare il film?

Sono stato in Georgia e l’ho trovata un posto molto cinematografico, molto toccante. Con quei paesaggi diroccati corrispondeva alla storia che volevo raccontare in termini emotivi. In più c’è una comunità cecena molto numerosa. Infine il fatto che i georgiani abbiano combattuto un conflitto recente con i russi ha fatto sì che l’esercito poteva prestarci del materiale militare russo senza metter bocca sul film, cosa molto rara.”

Come ha lavorato alle numerose scene violente presenti nel film, non solo come regista, ma anche come essere umano?

È un processo molto lungo, una delle grandi sfide di un regista: come rappresentare la morte, la violenza, la crudeltà, la sofferenza. Fino a dove ci si può spingere. Nel film ci sono poche morti filmate, ma è impossibile non mostrare la violenza quando si parla di un soggetto del genere. Ho mostrato più che altro la conseguenza della violenza, cioè i cadaveri, e la preparazione, cioè come si arriva ad essere capaci di uccidere. L’atto in sé ho cercato di non mostrarlo, ci sono magari persone che lo raccontano. Inseguivo l’autentico, ma lavorando sull’immaginario dello spettatore, senza imporgli delle immagini “pornografiche”. 

Nel film si vede una ricerca di realismo nel mettere in scena i ceceni, ma il punto di vista è occidentale, attraverso la protagonista, una europea che disperatamente chiede l’aiuto della politica, ma rimane inascoltata.

“Il punto di vista che ho cercato di adottare è quello di un essere umano che si interessa ad altri esseri umani, mettendo in luce un conflitto che nessuno conosce, parlando di cosa voglia dire trovarsi in una situazione di guerra oggi. In Francia pensiamo che la pace sia una cosa acquisita e non ci sarà mai più la guerra. È una stronzata. Poi ho cercato di fare un film che pone delle domande più che delle risposte. Quello che racconto della Commissione Europea è lo sfasamento fra l’inerzia di un’amministrazione farraginosa e l’urgenza di certe situazioni che domanderebbero interventi estremamente rapidi e coordinati. Ma non ho risposte, o soluzioni, che sono estremamente complesse. Ho mostrato, poi, come il ragazzino protagonista del film sia la sola possibilità di interrompere questo ciclo di violenza.”

La protagonista è giornalista e donna, da dove nasce questa scelta?

In molti conflitti da un lato ci sono i militari che combattono e dall’altra, fra i giornalisti, le associazioni e le organizzazioni non governative, ci sono moltissime donne, che spesso in questo genere di situazioni sono molto più coraggiose degli uomini. In Cecenia le associazioni più attive erano quelle delle madri dei soldati russi. Avevo voglia di mettere delle donne al centro della storia.

 

Recensione pubblicata dal sito del Tribunale per i Minorenni di Milano,
che ospita le recensioni di Joseph Moyersoen


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