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Siamo nella provincia cinese di Hainan, una località balneare dominata sul lungomare da una gigantesca statua di Marilyn Monroe in abito bianco sollevato dal vento, che richiama la famosa scena del film “Quando la moglie è in vacanza” di Billy Wilder.

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Di fronte al lungomare, c’è un piccolo hotel in cui lavora come factotum Mia (interpretata da Wen Qi), una ragazzina di sedici anni priva di documenti, che una sera sostituisce l’addetta alla reception mentre arriva un uomo benestante con due dodicenni amiche e compagne di scuola, Wen e Xin, che affitta due camere contigue l’una all’altra.

Durante la notte, tra alcol e musica, l’uomo abusa delle bambine. Mia ne è testimone: non ha visto quanto accaduto nella stanza delle bambine, ma sa che l’uomo è entrato da loro, perché le telecamere al piano lo hanno ripreso.

Quando i genitori delle due bambine si rendono conto di quanto accaduto alle figlie, denunciano l’uomo. Ma dato che, dopo due giorni, le videoregistrazioni vengono sovrascritte dal sistema, Mia resta l’unica persona che può riferire l’accaduto. Tuttavia Mia non sa se dire la verità e rischiare di perdere il lavoro, oppure chiudersi in un rassicurante silenzio.

E come fare per provare che l’uomo ha abusato sessualmente delle due bambine? Sono sufficienti gli indizi raccolti dalla polizia e l’esame ginecologico sulle bambine? L’uomo con il suo potere riuscirà a bloccare le indagini e a inquinare le prove?

La pellicola viaggia su un doppio binario, seguendo il percorso di vita delle due bambine stravolto dalla violenza subita, e il percorso di Mia che cerca di reagire all’accaduto, fino ad escogitare di sfruttare le prove della violenza in suo possesso.

I ruoli sono quasi interscambiabili, tra le vittime e la testimone (non a caso il vero nome della giovane protagonista, Wen, coincide con il nome di una delle due bambine vittime nel film).

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Presentato alla 74° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia in concorso, il secondo lungometraggio della produttrice e regista Vivian Qu che torna a Venezia quattro anni dopo “Trap Street”, è un duro ritratto della condizione femminile della Cina di oggi.

Vivian Qu, con un approccio intimista e con una grande sensibilità, punta il dito contro il maschilismo più bieco, in grado di autoassolversi anche di fronte al più atroce dei reati.

La regista, soffermandosi soprattutto sulle conseguenze delle azioni, attraverso un preciso lavoro nel fuori-campo, costruisce un’opera a forma ellittica che sfrutta soprattutto i silenzi, i sottintesi e la forza del non detto.

Si tratta di un film fortemente simbolico sulla violenza ai danni delle donne, sul corpo violato a partire della statua di Marylin Monroe le cui gambe sono sfregiate da graffiti, metafora del corpo come oggetto, e sul corpo inteso come puro e semplice strumento di piacere maschile; un film che denuncia una società che subisce le ingerenze del più forte, fino a soffocare la verità e a negare la giustizia.

La condizione femminile oggi in Cina, viene rappresentata dal colore bianco (abito delle bambine e della statua di Marylin Monroe), simbolo di purezza, di un’innocenza violata, di incapacità di autodeterminarsi e di sottomissione e sudditanza familiare e sociale, tra identità violate (Wen e Xin) e identità assenti (Mia).

Recensione pubblicata dal sito del Tribunale per i Minorenni di Milano
che ospita le recensioni di Joseph Moyersoen


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