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Incontriamo i protagonisti nella prima inquadratura, Maria (Micaela Ramazzotti, attrice italiana e musa ispiratrice del regista) e Vincent detto Vincenzo (Patrick Bruel, attore francese ed ex cantante), una coppia apparentemente ordinaria in viaggio nella metropolitana della Roma odierna.

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Lo sguardo della protagonista lascia trasparire una forte inquietudine e malinconia, nel momento in cui incrocia quello di una coppia di bambini accompagnati dai genitori, scena a cui Vincenzo assiste passivamente e reagisce in modo contrariato e infastidito. Ma cosa si nasconde dietro questa forte inquietudine e tristezza di Maria, la sceneggiatura del lungometraggio lo svela pian piano.

Dopo “Più buio di mezzanotte”, che ha aperto la “Semaine de la Critique” del Festival di Cannes 2014, il regista siciliano Sebastiano Riso prosegue la sua indagine esplorativa del lato oscuro, di vite e di relazioni torbide e complesse, che caratterizzano la nostra società attuale, presentando il suo secondo lungometraggio in concorso alla Biennale di Venezia 2017.

Un titolo quasi provocatorio “Una famiglia”, la cui trama si ispira a storie vere e si muove su due differenti piani narrativi: uno di carattere più immediato e realistico e l’altro di carattere più simbolico e metaforico.

Il piano più immediato e realistico è ciò che lega Maria e Vincenzo: lei da anni mette al mondo neonati, che lui vende a coppie sterili disposte a tutto pur di avere un figlio.

Forse Vincenzo - che ora esercita un potere coercitivo e controllante nei confronti di Maria che richiama per alcuni versi quello del protagonista de “Un primo amore” di Matteo Garrone - un tempo era stato l’ancora di salvezza della fragile Maria, patologicamente ancora innamorata di Vincenzo, diventata la fonte di reddito di quest’ultimo, ma al caro prezzo di prosciugarsi e annichilirsi, fino a vegetare più che vivere, reggendosi a malapena sulle proprie gambe, in attesa dei due eventi che di volta in volta caratterizzano questa scelta di vita sempre più imposta e subita: la gravidanza e la nascita.

Anche l’abbigliamento e gli interni di casa dei protagonisti rispecchiano il loro carattere e le loro dinamiche relazionali: lui sempre in abiti scuri, con uno sguardo impenetrabile che incute disagio, lei con una pelle rosea ma in abiti colori pastello o spenti, a parte quando indossa un abito da sera rosso fuoco per il momento del contatto visivo con la coppia “acquirente” di turno, e uno sguardo spesso malinconico e assente; così l’ambiente in cui vivono: appartati e isolati in un appartamento spoglio e grigio, totalmente privo di oggetti e dettagli affettivi, nascosti all’esterno da spesse tende. 

Entrambi i protagonisti sono fortemente ambivalenti: Maria, nonostante abbia nel corso della trama diverse opportunità di fuga, resta volente o nolente fino alla fine al fianco di Vincenzo; quest’ultimo, nonostante sembra abbia oramai solo interesse per il business costruito sul ventre di Maria, prende sotto la propria ala protettiva una ragazza adolescente vessata e maltrattata dal proprio compagno, ma forse solo per proseguire il business oramai avviato al tramonto con Maria.

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Un mercato privato di esseri umani che non a caso si svolge in gran parte in un appartamento, sito simbolicamente a fianco ad un grande mercato pubblico e di fronte al raccordo anulare.   

Il piano più metaforico invece riguarda l’uso del corpo di Maria, nome emblematico nonché simbolo materno per eccellenza, per soddisfare la sete di denaro di Vincenzo e la sete di figli di coppie sterili. Coppie di ogni estrazione culturale e sociale, coppie etero e omosessuali disposte a tutto pur di raggiungere l’obiettivo.

Il traffico di bambini purtroppo non è un fenomeno recente, e quello dell’utero in affitto è stato anche oggetto di alcuni filoni di indagini penali che hanno portato alla luce traffici organizzati in Italia e in Europa.

L’omogenitorialità è pure un argomento molto dibattuto oggigiorno, anche se nel film è solo sfiorato nella parte conclusiva senza che i protagonisti, resi edotti della tipologia della coppia richiedente, reagiscano ponendosi domande ma semplicemente alzando di molto il prezzo, quasi come se i rischi siano diversi a seconda che si tratti di coppie etero o omosessuali.

Va anche detto che l’Italia, pur consapevoli del contesto sociale liquido in cui si compongono e dividono sempre più numerose nuove tipologie di famiglie (famiglie ricostituite, coppie di fatto, coppie LGBT, etc.) è uno Stato che fatica a legiferare in materia di omogenitorialità.

Basti pensare al dibattito che si è a lungo protratto e per alcuni versi anche parzialmente arenato in materia di fecondazione eterologa, e in materia di unioni civili, lasciando l’Italia oramai l’unico Stato dell’UE che non consente l’adozione da parte di persone singole, senza citare poi la questione dell’adozione da parte di coppie omosessuali, il cui riconoscimento deve necessariamente superare il vaglio dell’interpretazione giurisprudenziale dell’adozione in casi particolari, in totale assenza di una normativa specifica in materia.

Ecco che così si comprende il perché di quello sguardo malinconico di Maria che dice “sono loro” quando incrocia quello di altri bambini.

Nonostante la sceneggiatura possiede diverse imperfezioni, nonostante i dialoghi siano spesso superficiali, e la regia sia a tratti forzatamente melodrammatica, va comunque evidenziato il coraggio di Sebastiano Riso di perseverare nella scelta di temi spinosi e poco accettati, che gli sono costati anche un’aggressione fisica dettata da ragioni omofobe. E questa purtroppo non è stata una finzione, ma la realtà.

Recensione pubblicata dal sito del Tribunale per i Minorenni di Milano
che ospita le recensioni di Joseph Moyersoen