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Per gentile concessione dell'autrice Giulia Viezzoli, pubblichiamo un estratto di "Io non sono straniero" 

“Mercoledì. Giorno in cui, più di altri, penso alla mia vicina di casa, Melissa, quella del secondo piano. Forse perché è uno dei pochi giorni in cui mi capita di incontrarla in discesa verso il portone quando alle sette esce per accompagnare suo figlio a scuola. Lo ha iscritto in un istituto che, a occhio e croce, si trova dall’altra parte di Milano.

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“Perché non uno di quartiere? Ti saresti risparmiata un bel viaggio”, le avevo chiesto un pomeriggio di settembre dopo averla incontrata sbuffante sul pianerottolo. Stava tornando affaticata dal traffico sulla tangenziale.

“Ma come facevo a iscriverlo qui? Sono tutti stranieri”.

“E allora?”, non capivo quale fosse il problema.

“E allora in una classe piena di stranieri si rimane indietro con il programma: si sa!”.

Si sa che a rimanere indietro non è mai il programma ma sono gli studenti che al limite faticano a seguirlo. Più spesso capita agli stranieri vista la provenienza e di conseguenza la difficoltà linguistica. Alcuni compiono percorsi scolastici brillanti, altri invece, per motivi legati alla famiglia o magari perché arrivati in una fase già avanzata del ciclo istituzionale, hanno bisogno di un processo di facilitazione da cui deriva la difficile nomenclatura della mia professione. Facilitatore linguistico specializzato nell’insegnamento dell’italiano come seconda lingua. Un iter formativo che purtroppo fatica a partire o a sussistere in molte provincie e regioni italiane per scelte politiche ed economiche non sempre favorevoli all’integrazione.

Tuttavia a Milano e dintorni dove il tasso dell’immigrazione è altissimo, la facilitazione linguistica nelle scuole pubbliche di primo e secondo grado è ormai prassi da una ventina d’anni e mi auguro rimanga tale nonostante i segnali provenienti dalle manovre ministeriali non siano di certo incoraggianti.

Vero è che laddove questo non sussiste non sono certo gli studenti italiani a rimetterci i quali a mio parere nello scambio tra pari originari da culture diverse possono solo che arricchirsi. Di contenuti, immagini, esperienze, narrazioni, forme di pensiero e sviluppo divergenti, complessi.

Sempre che la complessità sia un valore.”

***

“Chissà perché quello che crediamo o che ci hanno portato a credere, è che la qualità del sistema scolastico nazionale si sia abbassata da quando le scuole si sono riempite di studenti di altri paesi. O almeno è quello che ascolto dai tanti genitori che hanno deciso di iscrivere i propri figli in scuole private o comunque lontane dai quartieri, come il mio, ad alta densità migratoria e quindi multietnico.

“Come si fa? Non sanno neanche parlare italiano! Per forza le maestre rimangono indietro con il programma!” sono le argomentazioni più frequenti che apportano.

Argomentazioni superficiali e purtroppo di facile diffusione grazie alle quali si va generando e in alcune zone si è generato già da un po’, il fenomeno delle scuole ghetto.

Scuole da cui gli italiani scappano senza sapere che la differenza culturale non mette a rischio nessun programma, anzi, casomai lo arricchisce nella prospettiva e nel confronto tra forme di pensiero, tradizioni e abitudini diverse. Emisferi, città, regioni del mondo lontane si toccano all’interno di un’unica aula scolastica e non possono che generare curiosità, desiderio di conoscere e di sapere.

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“Di dove sei? Fa caldo o fa freddo nel tuo paese? Com’era la tua scuola? E i tuoi compagni? Che materie studiavate? Ci andavi a piedi? Che cosa c’era intorno a te? Palazzi, capanne, colline, montagne, il mare, l’asfalto, il terriccio, la sabbia? Distava molto da casa? Cosa mangiavi? Qual era il tuo gioco preferito? Che cosa ti manca di più? Qual è la differenza più grande che trovi con l’Italia? Ti piace stare qui?...” domande che se poste con sincero interesse aprono il campo infinito alla scoperta umana, antropologica, geografica, sociale. Materie che potrebbero giovare di un apporto più concreto e passare così da teorie asettiche a racconti fatti in prima persona e per questo più coinvolgenti. Vere e proprie occasioni per riflettere ed esplorare.

Al contrario, isolare la diversità non fa che accrescere la diffidenza da un lato e lo svantaggio linguistico dall’altro, creando i presupporti sicuri e inevitabili dell’emarginazione sociale.”

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“Laboratorio d’italiano…”, e nel tentativo di essere ancora più chiara aggiungo: “italiano per stranieri”.

Alle mie parole la manina di uno dei due inizia a tirarmi per la manica con insistenza: è Amir che, accantonata la discussione con Luis su chissà quale giocatore di calcio di cui ignoro l’esistenza, mi chiede: “Maestra! Chi sono gli stranieri?”.

“Bè…”, sento la saliva farsi più spessa, “siete voi: tu, Luis, Jung-Su…”, ma Amir non mi lascia finire.

“No maestra! Io non sono straniero: io sono di questa scuola!”, ecco, ora nel palato avverto come dei gradini. La saliva s’arresta. Inciampa. Atterrerà smarrita sull’esofago lasciandomi senza parole – e anche Luis, Jung-Su, Nala, Maryam e Basant: noi non siamo stranieri!”.

Ottimo! E adesso? Quando riprenderò a deglutire intendo, che cosa gli dovrei dire? La sua affermazione è chiara e ben formulata ed esprime un punto di vista con il quale, almeno in parte, mi trovo d’accordo. Eppure mi sento confusa.

Stranieri.

Stranieri rispetto a cosa? Al passaporto, alla lingua, alla religione, all’etnia, al luogo di nascita, all’identità culturale, alle abitudini alimentari, alla cittadinanza, al senso di appartenenza?

Non ci ho mai pensato con la dovuta attenzione e Amir, con l’ingenuità affilata di uno stuzzicadenti, mi coglie impreparata. Eppure so di essermi sentita straniera anch’io, più volte e non solo quando per un motivo o un altro mi sono trovata all’estero.

Quando mi sono trasferita in un quartiere nuovo, ad esempio, mi è capitato di sentirmi così. Poi quello stesso quartiere l’ho attraversato, percorso e ripercorso tutti i giorni, passando per le stesse strade, leggendo le stesse insegne, entrando negli stessi negozi o negli stessi supermercati, salutando la stessa gente o evitando la stessa gente di cui, un po’ alla volta, ho imparato a riconoscere i tratti del viso e il modo di camminare. E allora è successo di sentirmi parte di un luogo che senza accorgermene era diventato anche un po’ mio. Mio perché parte della mia quotidianità.

“È vero, Amir. Voi non siete stranieri in questa scuola ma l’italiano non è la vostra prima lingua. Avrei dovuto dire Laboratorio d’Italiano come lingua seconda.”

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Una nota dell'autrice, che ci racconta in dettaglio il progetto IO NON SONO STRANIERO.

Il progetto prende nome dal titolo del libro che ho scritto tra novembre 2018 e maggio 2019: un reportage narrativo attraverso il quale racconto la mia esperienza di facilitatrice linguistica nelle scuole pubbliche di I° e II° della periferia di Milano. La narrazione si sviluppa seguendo l'arco temporale di una "settimana di lavoro tipo" durante la quale mi relaziono con una sessantina di studenti  provenienti da altrettanti paesi diversi con i quali e per i quali organizzo laboratori linguistici di L2 (ovvero italiano come Lingua Seconda).

La scrittura, stesura, revisione e correzione del libro ha richiesto molto tempo così come la collaborazione di professionisti nel campo dell'editoria. Il risultato finale è un'opera semplice e allo stesso tempo profonda che non aspira a premi letterari o riconoscimenti artistici ma a raccontare la realtà nelle scuole multietniche di oggi in cui troppo spesso ci si dimentica che i bambini e i ragazzi iscritti  sono prima di tutto studenti e che per questo hanno il diritto di venire messi nella condizione di poter apprendere. Per questo l'insegnamento della lingua italiana come "lingua seconda" dovrebbe essere messa in primo piano e garantita a tutti.

Tornata da pochissimo nelle Marche e appurata la presenza massiccia di bambini e ragazzi immigrati anche nelle "nostre" scuole ho deciso di diffondere e distribuire il mio libro per finanziare un progetto pilota di facilitazione linguistica sul territorio, dove al momento la proposta è quasi del tutto assente o lasciata in mano alla buona volontà di docenti particolarmente appassionati e motivati.

"Progetto pilota" perché l'obiettivo è quello, nel tempo, di creare e generare un'azione quanto più radicata, solida e professionale possibile nella speranza che lo "straniero" in classe smetta di essere vissuto come ostacolo e inizi a essere considerato come risorsa.

La campagna è partita il primo di settembre tramite la piattaforma di crowdfunding Produzioni dal Basso e a una serie di eventi/presentazioni mirati sul tema in cui poter vendere il libro, parlare del progetto e aprire un dibattito in cui l'educazione, l'ascolto e il dialogo tra culture diverse siano poste al centro.

La raccolta al momento è arrivata a coprire il 10% del totale necessario a realizzare l'iniziativa e ha bisogno di nuovi e numerosi sostenitori. Per chi di voi credesse nella bontà del progetto e per questo volesse apportare il proprio contributo potrà farlo attraverso la pagina https://www.produzionidalbasso.com/project/io-non-sono-straniero/ dove troverà tutte le informazioni e istruzioni necessarie.

Giulia Viezzoli


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