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Tra una telefonata e l'altra passano come minimo tre settimane. A volte più di un mese. Guadagnare la fiducia dei protagonisti delle vicende che leggerete in questo libro non è stato facile. Quando li ho chiamati, per chiedere di raccontare le loro storie di perdono e riconciliazione, mi hanno sempre domandato tempo. Settimane, mesi. Un silenzio prolungato, necessario, in cui si combatte una vera e propria battaglia, contro se stessi.  

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Sapere che il tuo corpo è segnato da una cicatrice non significa che tu voglia guardarla. Soprattutto in presenza di altri. Anche se il motivo può essere giusto, anche se la decisione di raccontare come ci si è curati può incoraggiare chi ascolta a fare altrettanto e a non inchiodare la propria vita all'odio e al rancore. 

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Ora che faccio? Accetto di incontrare questa giornalista? Il progetto sarà serio o è solo alla ricerca di storie patetiche? Perché ha scelto me?

Mi pare di sentirli anche adesso: i dubbi, la diffidenza, la paura di svelare un'intimità che racchiude ricordi e soprattutto tanto dolore. Ma in questo caso non è possibile fare altrimenti. Perché quelle che vorrei portare alla luce – lo spiego ogni volta al mio interlocutore perché sia ben chiaro – sono storie vere di “riconciliazione possibile”. Storie di perdono, in cui vittime e colpevoli si sono incontrati e in qualche modo “riconosciuti”, decidendo (magari con l'aiuto di un mediatore) di superare l'odio che li divide e ricucire quel delicato tessuto di relazioni e sentimenti – in primis la fiducia nell'altro – che il reato ha interrotto.

Quando l'ok arriva, quasi sempre inaspettato, non significa mai che sia fatta. Lo scopro a mie spese, dopo un'iniziale e ingenua contentezza. Perché tra il dire “sono disponibile” e il “ci vediamo questo giorno alla tal ora” passa altro tempo e l'appuntamento, in qualche caso, non si definisce mai.

Sapere che il tuo corpo è segnato da una cicatrice non significa che tu voglia guardarla. Soprattutto in presenza di altri. Anche se il motivo può essere giusto, anche se la decisione di raccontare come ci si è curati può incoraggiare chi ascolta a fare altrettanto e a non inchiodare la propria vita all'odio e al rancore.

È vero per le vittime, ma non lo è meno per chi ha commesso un reato e ora sta pagando, anche nel carcere della propria coscienza – forse il più intransigente -, per il male che ha causato e che non può essere in alcun modo cancellato.

Il dolore ci rende simili. L'avevo intuito in passato nelle mie visite al Due Palazzi, la casa di reclusione di Padova, ospite della redazione di Ristretti Orizzonti, l'ho avvertito con maggior forza ora incontrando Paola, Carolina, Giovanni, che chiamano semplicemente per nome gli assassini dei loro familiari. È allora che ne ho avuto la certezza, e mi sono tremate le gambe: perché il nostro nome, quello che nostro padre e nostra madre hanno scelto ancora prima di prenderci in braccio, è ciò che ci accompagna, ci identifica e ci distingue dagli altri. Ci rende unici. E chi lo pronuncia, nel momento stesso in cui lo fa, riconosce in noi un valore: la nostra dignità. Il nostro essere uomini e pertanto fragili e limitati. Lo sguardo di chi odia, invece, non vede mai il volto dell'altro.

Credo sia questo il segreto di ogni riconciliazione: il perdono diventa “possibile” laddove non esistono eroi, santi, superuomini o semidei. Dove non si pretende di esercitare un potere sulla vita o la morte altrui. Dove non si misura la perdita di chi amiamo soltanto in termini di anni da scontare. Come hanno fatto i protagonisti di questo libro: uomini e donne qualunque che un giorno si sono trovati – loro malgrado o per una scelta consapevole – da una parte o dall'altra, vittime o carnefici. E che fatica stanno provando, ognuno a suo modo, a muovere qualche passo in una direzione nuova, convinti che da lì il loro futuro possa ricominciare.

Definitelo pure un salto nel buio. I miei giorni di “attesa” sono serviti per raccontarvelo. 

 

Introduzione a: Ti chiamo per nome, di Elena Parasiliti (Terre di Mezzo Editore)
Il libro si può acquistare qui


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