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Partiamo un po’ prima, devo prendere la mia auto e ci dobbiamo fermare a fare metano. Il viaggio è lungo fino a là. La radio parte in automatico con l’accensione del motore; non abbiamo ancora fatto tre metri e ti sei già messa ad abbassare completamente il volume e a far partire la tua playlist dal cellulare, senza nemmeno chiedere, fare un commento.

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Allora te lo faccio io, con tanto di sottolineatura su quanto il genere musicale che adori a me faccia cagare. E poi... sei sulla mia macchina... Cosa tocchi?!?

Tu sorridi, chiedi scusa e te ne sbatti.

E così partiamo, un po’ nervose. Parliamo e ci distendiamo un po’. Sappiamo entrambe cosa stiamo andando a fare. Io non sono entusiasta di quello che ti proporranno, come non sono entusiasta del tuo progetto da noi. Anzi no. Non è corretto, il tuo progetto è andato anche bene, è che ormai è chiuso da tempo: tu non ci sei mai e quando ci sei cerchi un’attenzione di cui poi non te ne fai niente. È una relazione che si è compromessa ultimamente, ma tutto sommato insieme abbiamo fatto quello che si poteva. Obiettivi raggiunti. Percorso esaurito. Ma non immaginavo che sarebbe andata a finire così oggi. Non so tu.

Il viaggio si fa breve, alla fine optiamo per scegliere una canzone tu, una io. Cantiamo. Si sta bene in auto, il panorama diventa bellissimo più ci avviciniamo a destinazione.

Arriviamo con un po’ di anticipo, così da fare due passi in quel che era il tuo paese, il tuo territorio, parecchio tempo fa. Sono anni che non ci vivi più. Sono anni che la tua casa è la Comunità, psichiatrica prima, educativa poi. Noi.

Fumiamo una sigaretta al sole ed entriamo negli uffici del Servizio Sociale. Ci fanno aspettare più di mezz’ora; tu t’incazzi, e io pure, anche se non te lo dico e cerco di smorzare la tensione. Ma mi avvicino lo stesso alla scrivania all’ingresso e faccio presente nuovamente l’orario del nostro appuntamento alla segretaria. Finalmente la porta dell’ufficio si apre. Stringo una mano e mi presento. Lei stranita mi dice: “Sì ci siamo già viste a Pavia una volta”. Che figura di merda, penso. Non la riconosco la tua assistente, quella nuova, quella subentrata quest’estate. Ha i capelli completamente diversi e qualche chilo in più, e penso che sia l’altra, quella del Comune, che non ho mai incontrato. E invece no, e ci sono entrambe. Mi scuso, e glielo dico: “Sei cambiata”.

Ci fanno accomodare. L’ ufficio è angusto, spoglio, ma la scrivania piena di carte, cartelline, con tanti nomi. Pochi preamboli e si va al dunque. Esordisce l’assistente del Comune dicendoti che l’hanno trovata la Comunità per te, avrai un primo appuntamento tra un paio di giorni per andare a vederla e farti conoscere. Tu sgrani gli occhi, e dici: “Come una Comunità?”

Nonostante ti avessimo cercato di dissuadere da mesi dall’idea irrealistica per cui avresti potuto essere inserita in un contesto di appartamenti per la semi-autonomia nell’immediato, tu ancora a oggi non molli; quell’immaginario, tutto tuo, così fantasioso e insensato sotto molti aspetti, è l’unico che prendi in considerazione. Da quando a ottobre hai compiuto i diciotto anni ti sei improvvisamente convinta di essere diventata adulta, capace di ogni cosa, indipendente. Ti sei preoccupata di richiedere il prosieguo amministrativo e di resistere ancora qualche mese da noi in Comunità perché non sei autonoma economicamente. Era palese ormai la tua rinuncia a qualsiasi progetto educativo, a qualsiasi prospettiva di accompagnamento, di inserimento al mondo del lavoro che non prevedesse un compenso economico. Ti rimettevi in riga in Comunità solo nel caso in cui la tua mancia settimanale era a rischio sospensione; altrimenti eri lamentosa su tutto, richiedente, persino prepotente a volte. Sei stanca di stare in una Struttura, vuoi andare a vivere in un appartamento, in autonomia, non avere più educatori tra le palle, lavorare per avere i soldi e riuscire a spassartela, nel territorio. Ottimo. Ma questo non è possibile oggi. Al di là dell’essere pronta o meno, tu soffri di un disturbo psichico di cui non ci possiamo dimenticare, sebbene tu stia molto meglio. Ma tu non ci senti, fingi di pensarci su, ma hai già scelto che stavolta (ora che finalmente puoi perché hai diciotto anni) farai di testa tua.

[continua]

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(Clicca sull'immagine per leggere il testo in pdf)


Autrice

Elena Lupezza
Educatrice professionale presso la Comunità educativa per ragazze adolescenti “Casa Miriam” a Pavia – Cooperativa sociale “Arimo”.


Elaborato finale del Master biennale per professionisti della tutela minori e famiglie

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