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L’8 maggio l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza ha scritto a sei ministri italiani. Il tema era lo sblocco dei fondi per gli orfani di femminicidio.

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Esiste in Italia una legge, la n. 4/2018 entrata in vigore a febbraio dello scorso anno, che tutela i bambini, i ragazzi, che perdono la madre per mano del padre, a sua volta suicida o in carcere.

Prevede interventi importanti: gratuito patrocinio nel processo, assistenza medico-psicologica, esclusione del reo dall’asse ereditario della vittima (e sospensione della pensione di reversibilità all’omicida, altrimenti possibile), possibilità di modificare il cognome. I fondi vengono fatti confluire nel Fondo nazionale per le vittime di mafia, usura e reati intenzionali violenti e, quanto alle modalità di accesso, la norma rinviava a un regolamento da approvare entro tre mesi (maggio 2018) da parte dei Ministeri Interno, Giustizia, Istruzione.

Fin qui tutto bene. Peccato che il regolamento non sia mai stato approvato, così i fondi sono stati stanziati per il 2018 (e ridotti nel 2019) ma non possono essere richiesti e i bambini, i ragazzi, insieme a chi li accoglie – quasi sempre i parenti della madre – si arrangiano come possono.

Un sollecito autorevole è arrivato appunto dall’Autorità Garante che si è rivolta al Presidente del Consiglio e ai Ministri alla Famiglia, Giustizia, Interno, Economia e finanze, Lavoro e politiche sociali e Istruzione chiedendo, oltre allo sblocco dei fondi, anche un impegno per la prevenzione.

Nell’aiuto agli orfani speciali esistono, in Italia, due eccezioni regionali, una in Emilia Romagna e l’altra in Lazio.

Nella prima la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati interviene per sostenere chi subisce gravi reati dolosi, con un contributo economico che per gli orfani di femminicidio è quasi sempre dedicato al sostegno psicologico, al percorso di studi, e alle spese che gli affidatari dovranno affrontare. Ci lavoro dal 2014 e sono orgogliosa del fatto che tutte le vittime vengono aiutate, anche gli orfani di padre tanto per fare un esempio, o gli adulti, perché tutte le vittime hanno diritto alla stessa solidarietà, ma le risorse a disposizione sono meno di quello che vorremmo, o che servirebbe.

In Lazio si fa di più ma in modo mirato, con una legge regionale specifica che stanzia 5mila Euro l’anno proprio per gli orfani di femminicidio, fino al 29esimo anno di età.

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Non è poca cosa superare un fatto così drammatico, né per i bambini né per i familiari. C’è la mancanza, la nostalgia, il rifiuto di accettare una morte così assurda, spesso associati al senso di colpa o al rimorso di non aver capito, di non aver protetto.

Non di rado i bambini sono stati testimoni dell’omicidio. Occorrono cure psicologiche specifiche, prolungate, competenti, e a volte anche cure psichiatriche. E c’è il carico economico che si aggiunge improvvisamente nella vita di chi, con generosità, apre le porte della propria casa e da un giorno all’altro acquisisce figli in più, “già confezionati” direbbe qualcuno.

Quando hanno meno di diciotto anni sono i giudici minorili, coadiuvati dai servizi sociali, a stabilire quale sarà la loro nuova famiglia. Tutti i parenti vengono esaminati e se non ce ne sono, o nessuno è idoneo, si arriva alla dichiarazione di adottabilità.

Nella mia esperienza al Tribunale per i Minorenni di Bologna sono stata coinvolta in diversi procedimenti di questo genere e non si è mai arrivati all’adozione, ci sono sempre stati zii o nonni in grado di occuparsi dei bambini. Assistevo anzi a una sorta di competizione tra i parenti della madre e del padre, spesso ugualmente vittima, ancor più se all’omicidio è seguito un suicidio e dunque tutti hanno un caro per cui piangere.

Diventa fondamentale, in quei casi, comprendere quale lettura i familiari danno della violenza sulla mamma e, conseguentemente, che cosa trasmetteranno ai bambini.

Trovo inaccettabile qualsiasi responsabilizzazione della donna – avesse anche commesso degli errori in vita, nessuno giustifica la sua uccisione – ed anche qualsiasi tentativo di recupero del padre a buon mercato, in nome del fatto che “ora la mamma non c’è più, è l’unico genitore rimasto”.

Può sembrare paradossale quello che sto scrivendo ma mi sono scontrata ogni volta in questo tentativo di insabbiare i fatti e di normalizzare la situazione, atteggiamento che può essere presente anche nei servizi territoriali oltre che (ma lo capisco di più) nel padre, se in vita, o nei suoi parenti.

È cartapesta una normalità basata sulla negazione della violenza. Quale equilibrio psicologico possiamo pensare in bambini cui si trasmetta un messaggio talmente contraddittorio, confuso, abnorme, da ritenere “passabile” l’uccisione della madre per mano del padre?

Vorrei infine ricordare con gratitudine una studiosa scomparsa prematuramente il 9 marzo scorso. Parlo di Anna Costanza Baldry, che molto ha dato nel suo lavoro accademico impegnandosi per la ricerca sulla violenza di genere e sui femminicidi in particolare, la divulgazione, la formazione degli operatori, nel tentativo di trasmettere uno sguardo più consapevole e rispettoso delle vittime di violenza.

testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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