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Il convegno “Educazione alla pace e alla nonviolenza” che si è svolto a Ravenna, nella prima sessione del 13 ottobre scorso, ha un senso speciale in tempo di guerra in Europa. Nel ritrovarci insieme non dimentichiamo quello che sta accadendo poco lontano da qui e al contempo manteniamo lo sguardo sulle nostre relazioni, perché l’apprendimento di un’alternativa nonviolenta nella gestione dei conflitti non può che radicarsi nelle relazioni che ci coinvolgono direttamente.

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Dico a me stessa: nella scuola non si tratta di mettere in palinsesto l’ora di nonviolenza e lasciare tutto inalterato, ma di proporre occasioni nelle quali sia possibile sperimentare un diverso modo di stare insieme. Se questo si è capaci di farlo anche in matematica e geometria, ben venga, è certamente possibile. I bravi maestri sanno farlo e decenni di pratiche lo documentano.

Ascolto con sconcerto l’attualità delle parole che Lea Melandri introduce richiamando le sue esperienze degli anni Settanta. La scuola che esclude i corpi, che tende a premiare un solo tipo di intelligenza, che riproduce gerarchie sociali e relazioni di potere e considera “fuori tema” ciò che i ragazzi e le ragazze vivono fuori da lì, violenza familiare inclusa, nella maggioranza dei casi non può ancora dirsi archiviata.

In tante realtà lo è, fortunatamente, e i docenti che contravvengono al modello tradizionale hanno spesso la stima e il credito di colleghi e famiglie, ma non sono la maggioranza. A me pare che l’eccezione si debba più alla volontà, alla capacità di singoli insegnanti o dirigenti scolastici che alla trasformazione di un’istituzione che potrebbe rendere disponibili strutture diverse, costruire una cultura differente, per orientare i processi di insegnamento e apprendimento. Perciò le parole di Daniele Lugli prima di me, nel ricordare l’educazione profetica di Aldo Capitini, dicono così tanto a chi lo ascolta, dopo il richiamo brusco all’attualità venuto da Luigi Zoja quando ha indicato i segni di paranoia e sospetto reciproco che intridono il nostro tempo, o dall’educatore Michele Piga soffermandosi sull’amplificazione della violenza che corre nel web.

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Per parte mia ci sono alcune linee di fondo per l’educazione alla pace e alla nonviolenza delle quali mi fido per averle messe alla prova molte volte in questi anni.

Considero antidoti alla violenza proporre laboratori nei quali la cura della relazione non sia scontata o accidentale ma centrale. Esperienze nelle quali i ragazzi e le ragazze, e già prima i bambini e le bambine, siano chiamati a esprimersi e si sentano accolti nel loro vissuto. Tempi dedicati a ciascuno e al gruppo in una dimensione non troppo ampia – se si vuole andare oltre l’informazione e la sensibilizzazione, meglio mettere da parte le grandi assemblee anonime – e nutriamo la fiducia nel gruppo.

Quando l’adulto sa porsi come facilitatore e garante di una comunicazione corretta, con regole chiare e condivise, il cerchio diventa luogo di accoglienza delle differenze, possibilità di emersione e gestione per i conflitti interpersonali, spazio di rielaborazione di ciò che pungola o allontana per trasformarlo in apprendimento.

Per ciò che ho vissuto, quando i ragazzi sentono che questo è possibile non mancano all’appuntamento. E se una testimonianza li interpella rispondono, se un’ingiustizia è sotto ai loro occhi sentono il desiderio di raddrizzarla.

Di alcune esperienze ho dato conto nella mia relazione. Tra queste, sulla violenza domestica e più in generale sull’emersione delle emozioni difficili, la favola “Papà di sole e papà di tempesta” (ebook, la meridiana 2015) che è diventata laboratorio per bambini e adulti e poi spettacolo teatrale. Anche al gioco di ruolo “Noi, parti offese. Solidarietà in scena” ho già dato spazio in questo blog.

Una terza avventura mai raccontata qui si riferisce ai laboratori di narrazione sviluppati da quasi trent’anni con gruppi di bambini, adolescenti, adulti, a scuola come in contesti di cura per persone con disagio psichico, per adolescenti a rischio, per ex tossicodipendenti.

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Nei laboratori (dai 7 anni in avanti, per un mio limite con bambini molto piccoli, lungo percorsi di uno o tanti incontri secondo ciò che si vuol fare) entro proponendo di costruire insieme una storia collettiva. Lo faremo a partire da stimoli che almeno inizialmente sono io a proporre: parole, notizie, immagini, oggetti, ritagli, suoni, quadri d’autore, canzoni… Tutto può essere scintilla per una trama che ancora non conosciamo ma al termine sarà nostra, non tua né sua ma di tutti insieme.

Nel processo creativo – che è la parte migliore – tutto può essere detto e nulla è sbagliato, riprendere l’idea di un compagno non è copiare ma riconoscerle valore e non c’è nessuno che non sia capace. Più tardi, quando vorremo dare una fisionomia alla storia affinché altri la possano conoscere, ci sarà spazio per chi sa scrivere e per chi ama disegnare, ma si può suonare, cantare, recitare, costruire, rappresentare in altro modo quel nucleo narrativo pensato insieme e ancora una volta saranno valorizzate competenze diverse.

I laboratori di narrazione collettiva sono esperienza e educazione all’ascolto reciproco, immersioni in un’attenzione profonda, occasione per la creatività e affidamento nei compagni. Quel di più di piacere, coesione, conoscenza, autostima assaggiati nel corso degli incontri diventano risorsa per relazioni attente alla persona, non saranno perduti neppure quando l’esperienza si concluderà.


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è la direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati e referente dell’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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