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“Bisognerebbe entrare di più nelle scuole”, mi dice l’amica quando le racconto l’episodio a cui ho appena assistito.
Sono in una delle piazze più belle di Ferrara. È venerdì 20 ottobre, le 18 o poco più. Il Castello Estense è incipriato di rosa. La Rete della Pace ha convocato qui una fiaccolata per Israele e Palestina. Mentre ancora aspettiamo di radunarci e scambiamo saluti affaticati tra candele, bandiere della pace o della nonviolenza e ombrelli aperti, sento un coro di giovani avvicinarsi.

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La Biancaneve che dimora in me si aspetta di riconoscere una canzone araba o israeliana, una canzone per la pace. Il ritornello invece è il solito: “Dottore, dottore, dottore del buco…”. Trita retorica di… festa, pare si dica così, rinnovata a ogni sessione e a ogni proclamazione dagli amici dei neolaureati. M’inquieta che a nessuno venga voglia di cambiare canzone, di inventarsi qualcosa che rappresenti proprio quella laurea, invece di appiattirsi sullo stereotipo.

Il gruppone si avvicina, una di noi gli va incontro. Da dove sono non mi arriva la conversazione tutta intera ma sento distintamente un’amica della festeggiata commentare: “Ah beh, se è per questo, le tragedie ci sono tutti i giorni. Ognuno sceglie come riempire il proprio tempo, si vede che voi non avete nient’altro da fare e per questo siete qui”.

Resto sgomentata. Per la sordità, la superficialità, l’arroganza. E ora forse sono io a calcare la mano nel giudizio, ma è quello che ho provato in quel momento, insieme al sospetto di una gigantesca beffa: se mi guardo intorno, le persone che conosco – non tutti i presenti, ma molti di loro – sono tra le più impegnate a cui posso pensare, prese dalle incombenze dell’adulto medio, dal desiderio di viverle in modo non scontato cioè dando un senso personale al proprio essere nel mondo – come insegnante, avvocato, sindacalista, geometra, funzionario pubblico, operatore sociale… come genitore, compagno o compagna o marito o moglie… – e in più con la bizzarra idea che il mondo li riguardi. Che sì, c’è una tragedia tutti i giorni e nemmeno siamo capaci di nominarle tutte, figuriamoci conoscerle, meno ancora capirle, eppure accade a taluni tra noi di sentire che pensare solo per sé, o solo per sé e i propri cari, non ci colma, non ci basta.

Perciò “Bisognerebbe entrare nelle scuole”, cerca di consolarmi l’amica, come a dire che l’assenza di compassione è il frutto di un lavorio, non so se intenzionale, ma certamente protratto nel tempo e iniziato ben prima di quella cavalcata in pieno centro, intonando parole decise da altri. A venticinque anni i giovani già sono vecchiarelli. Bisogna partire prima.

Mi soccorrono una buona notizia e due storie. La prima, istituzionale ma promettente, è che quest’anno, per la prima volta, le proposte di educazione alla nonviolenza pensate dal gruppetto ferrarese per le scuole di Ferrara saranno tra i materiali che la Prefettura, nel suo ruolo di coordinamento provinciale, invierà a tutte le scuole, anche a quelle dove non abbiamo ancora docenti di riferimento. Non è detto che le nostre idee incontrino il favore di insegnanti e dirigenti scolastici ma questa possibilità esiste, e con le scuole interessate proveremo a dialogare.

Poiché però gli incontri e perfino i percorsi che potremo avviare – sulla gestione dei conflitti, sulla nonviolenza, sull’obiezione di coscienza – non saranno più che una piccola parte del progetto educativo complessivo per quegli studenti, è vitale che nella quotidianità della scuola si vivano relazioni improntate alla nonviolenza, cioè poi all’apertura, affettuosa, verso l’esistenza, la libertà e lo sviluppo di tutti coloro che in quella scuola stanno crescendo, adulti inclusi.

Due storie sono di esempio. Mi arrivano da insegnanti cui mi lega profonda stima. Già altre volte li ho citati su queste pagine. Insegnano in gradi diversi dell’istruzione e questo aiuta a tenere largo lo sguardo.

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Nella primaria di Cocomaro di Cona, qualche settimana fa, il Maestro Mauro Presini ha chiesto ai bambini della sua classe cosa sognano quando hanno la testa tra le nuvole. Le risposte si leggono sul blog di Mauro e, a farlo senza irrigidirsi, sono deliziose. Non c’è dubbio che alcuni di quei pensieri siano ben più interessanti di una lezione scolastica media. Vogliamo mettere quanto è entusiasmante e affettuoso e pieno di vita pensare a cosa farò da grande, a quando guardo mio padre lavorare in carrozzeria, a scavare le buche per trovare le ossa dei dinosauri o a quando gioco con i miei animali? “Penso a cosa creare nel mio mondo”, ha risposto un alunno, con una frase che ne sintetizza molte altre. Qualche giorno dopo il Maestro Mauro ha portato la classe a osservare le nuvole e poi a descriverle. Possiamo intuire quanto trasformare la distrazione in creatività e ascolto profondo possa sostenere la crescita, più di una sgridata.

Nel bolognese, in una scuola secondaria di primo grado, l’insegnante di lettere Emanuela Garimberti pochi giorni fa ha spiegato la “scoperta” dell’America. Sul suo profilo Facebook ha raccontato la lezione così:

Insegnare, sempre di più, è andare in scena. Cercare lo sguardo, lo stupore, l’attenzione degli alunni. E poi, dopo esserci assicurati i loro occhi attenti, sguainare l’artiglieria pesante.

La mia arma segreta nello spiegare storia è sempre la fonte. O meglio, le fonti. Al plurale.

Non troppe, non troppo poche, meglio se in contrasto tra loro.

Ecco il dossier che ho utilizzato il 12 ottobre scorso.

Leggiamo una lettera di Cristoforo Colombo, di ritorno dal suo primo viaggio, al cancelliere di Ferdinando d’Aragona, nella quale ci descrive quelli che lui pensa siano Indiani (in realtà gli abitanti di Cuba): sono pacifici, generosi e accoglienti. Subito, a caldo, propongo la lettura di un brano dalla prima relazione di Hernan Cortés. Sono passati meno di trent’anni ma qui gli Indios, sebbene abili nelle attività pratiche, sono presentati soprattutto come idolatri. Passiamo poi a leggere i motivi per cui, secondo il frate domenicano Tomas Ortiz, gli Indios meriterebbero la sottomissione imposta loro dai conquistatori europei: “sono stupidi, dementi, insensati; non gli importa nulla di uccidere o essere uccisi”, addirittura mangiano carne umana.

Ho il mio bel da fare a calmare gli animi dei miei alunni, che subito s’indignano (e io li amo anche per questo). Li calmo solo proponendo loro un brano da Bartolomé de las Casas, il vescovo cattolico spagnolo che, impegnato nella difesa dei nativi, condivide il loro stesso sdegno adolescente…

Chiedo poi: “Perché queste persone, pur essendo tutte testimoni oculari, dicono cose così diverse? Non ci interessa, per ora, sapere chi ha ragione e chi torto. Ci interessa perché. E il perché lo troviamo FUORI dalla fonte. Nel contesto e nei motivi che hanno portato i testimoni a scrivere. Chi sono queste persone? A chi scrivono? Perché scrivono?”.

Il dibattito in classe si accende subito. Le risposte non sono mai banali, né scontate.

Trovare le risposte a queste domande è fare storia. Scoprire a dodici anni che non esiste il “documento rivelatore”, che la fonte non dice la verità, ma che siamo noi a obbligarla a confessare, mi sembra un buon obiettivo da far raggiungere ai miei alunni (“la storia contropelo”, la chiama Carlo Ginzburg).

Il gioco delle “fonti in contrasto” funziona bene per tanti altri periodi storici… Ma, soprattutto, e la cosa mi appare sinceramente ancora più utile, suggerisce ai ragazzi come “leggere” la loro contemporaneità e le sue molte, troppe contraddizioni.


testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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