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Per gentile concessione dell'autrice, pubblichiamo un estratto del romanzo "Il cacciatore di orchi" di Rosella Quattrocchi (Il Ciliegio edizioni).

CHIARA

Dal vetro della finestra chiusa un raggio di sole entra nella stanza, illumina le pareti bianche e termina la sua corsa tuffandosi negli occhi di Chiara, che appaiono così di un azzurro ancora più intenso.

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[...]

Grossi lividi le segnano il volto, tracciando disegni irregolari con sfumature dal rosso al blu scuro. Gli occhi troppo piccoli, schiacciati tra il gonfiore delle palpebre e quello delle guance. Li chiude e nella sua mente scorrono le immagini che la riportano nell’incubo.

È sera. Fuori il sole ha già ceduto il posto alla luna, i lampioni accesi diffondono una luce giallognola, resa opaca da quel leggero velo di nebbia che nei giorni di metà novembre non manca mai.

È appena uscita dall’ufficio, ha fatto tardi. Come al solito.

Arriva al parcheggio ormai vuoto, c’è solo la sua auto ad aspettarla. Si ferma.

Tra la mano sinistra e il petto, in un precario equilibrio che sfida la forza di gravità, tiene l’agenda e alcune cartelline piene di fogli; la mano destra riesce a trovare la cerniera e, aperta la borsa, vi si immerge, rimescolando vari oggetti alla ricerca del portachiavi di legno, a forma di pesce, che le ha regalato la sorella in una delle tante occasioni in cui doveva farsi perdonare qualcosa.

L’operazione sarebbe meno complicata se decidesse di appoggiare agenda e fogli sopra il tettuccio dell’auto. Chiara, però, non è per le cose semplici e si destreggia sempre in equilibri improbabili; come quando si carica la spesa per portare tutto in casa in una sola volta: due sacchetti in ogni mano, una scatola sotto un braccio, la borsa sotto l’altro e il solito ostacolo della porta da aprire. [...]

No, lei non appoggia agenda e cartelline a cui le sue cinque dita ormai aderiscono come l’edera al tronco. Ora è una sfida tra lei e le chiavi.

È intenta a rovistare quasi alla cieca – la penombra, infatti, le impedisce di vedere dentro quello che assomiglia più a un buco nero che a una borsa – quando sente una morsa stringerle gli avambracci. Non fa in tempo a girarsi che un tipo alto, coperto da un casco, le si para davanti e le sferra un pugno dritto al volto. Un dolore acuto e pulsante le parte dall’occhio destro e si dirama per tutto il viso.

Traballa, sta per cadere, ma chi le sta dietro la tiene stretta, le impedisce di muoversi.

Sente la guancia pulsare, le si tappano le orecchie e tutto suona ovattato. Le voci le giungono da lontano. I lampioni si mettono a danzare, le luci girano vorticosamente, gli alberi si spostano, il cielo si china sopra di lei e poi di nuovo si ritrae.

Appena il tempo di riaprire gli occhi, di pensare che forse è solo scivolata e ha sbattuto contro il cofano, di nutrire una di quelle assurde speranze che di fronte a situazioni impreviste si insinuano nella mente, che un secondo colpo le fa ruotare il viso dalla parte opposta.

Le dita della mano sinistra lasciano la presa e si aprono come il riccio quando cede alle spinte della castagna, l’agenda cade al suolo, foglietti e appunti piovono sull’asfalto.

No, ora non può più sperare che sia stata una caduta accidentale. Il cervello srotola miriadi di pensieri, che si sovrappongono e si scontrano l’uno con l’altro impedendole di abbozzare qualunque reazione. [...]

Un liquido denso e caldo scende dal naso, lo sente colare vischioso lungo il mento e il collo dopo essersi diramato all’altezza delle labbra che, socchiuse, permettono a quel fluido viscido di insinuarvisi e di appiccicarsi al palato secco mentre la lingua si muove cercando di raccoglierlo per non farlo arrivare in gola. Un sapore di ferro e ruggine le riempie la bocca.

Il cervello continua a sfornare pensieri, domande, paure che ora si accavallano a ricordi ripescati alla rinfusa nella memoria.

È al mare, corre con Francesca sulla spiaggia. Ridono. L’acqua bagna loro i piedi e in lontananza si sente la voce del padre gridare che non è ancora il momento di fare il bagno. È una voce lontana, ma il messaggio viene colto all’istante e lei e la sorella si allontanano dal bagnasciuga. Anche la voce della madre le raggiunge e le invita a non andare troppo lontano, ma le parole restano libere nell’aria, fermandosi alle loro spalle mentre con Francesca continua a correre dalla parte opposta. Fino a quando sente una fitta all’avambraccio sinistro che si tende all’indietro, mentre il corpo interrompe all’improvviso la sua corsa in perfetta sincronia con quello della sorella. Le due teste si piegano leggermente da un lato e all’indietro, quando il padre tira loro le orecchie assestando sul suo viso un ceffone che le lascia cinque segni rossi sulla guancia e due lacrime che le gonfiano gli occhi…

Di colpo le orecchie si riaprono, bagnate dal calore di un fiato.

Una voce le sta sussurrando qualcosa, le scivolano addosso frasi confuse di cui riesce ad afferrare solo le ultime parole:

«… Un calcio per ogni anno».

Non ci sono più pugni ora. [...]

Le ginocchia sfregano sull’asfalto e Chiara capisce di non essere più in piedi.

Ora il cervello riesce a riprendere il comando di uno degli occhi e gli ordina di aprirsi. Deve capire in che posizione si trova il suo corpo. Deve capire cosa sta succedendo.

L’occhio sinistro a rilento apre la palpebra, saracinesca pesantissima e arrugginita. La pupilla mette a fuoco l’oggetto che ha di fronte: è la ruota della sua auto.

Davanti a quello sfondo familiare, lo sguardo gradualmente inquadra uno stivale di pelle scura con dentro una gamba magra e lunga, che appena focalizzata le sferra un calcio allo stomaco, in assoluta simultaneità con la voce di prima, non più vicina all’orecchio ma lontana, sopra la testa:

«Uno…»

Si susseguono altri calci, che la voce conta: «Due… tre… quattro». [...]

La voce ha smesso di contare, si è fermata al dieci e ora, guidata da una mano che le ha afferrato i capelli e le tira indietro la testa, le domanda premendo la bocca all’orecchio:

«Questi erano tutti per te, solo un anticipo sul ringraziamento per i dieci anni chiesti da quel bastardo. E te ne daremo ancora se non ci dici dov’è. Dicci dove l’hai nascosto!»

Stesa sull’asfalto, piegata su un fianco, Chiara unisce le braccia e le piega coprendosi il capo con le mani. Tace.

Se non ci fossero i segni sul corpo, se non ci fosse quel letto di fianco al suo, quei muri bianchi e quelle luci al neon, potrebbe pensare di aver sognato.

Un incubo. Come quelli che la svegliavano all’improvviso nelle notti di due anni prima. Come quelli che la svegliano tuttora quando il giorno dopo l’aspetta un compito delicato e difficile. Quando per fare il bene deve fare del male.

Riapre gli occhi, si guarda intorno, allunga il braccio e prende il portafoglio dal comodino, lo apre e tira fuori la foto di un bambino, un bel bambino con i riccioli biondi, gli occhi blu, sorridente.

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MATTEO 

A Matteo piaceva molto matematica. Quel mondo di numeri e regole, quel linguaggio preciso, fatto di codici e formule, che portava a un risultato semplice e unico, gli dava sicurezza. Italiano, invece, era una materia che l’aveva sempre insospettito: troppe variabili, troppe probabilità che ti venga chiesto di raccontare di te, di quello che fai. Troppe parole, da scrivere o anche da leggere. Troppo lungo.

Meglio la matematica: chiara, netta, sicura. È così o non è così, va bene o va male, si può o non si può. Con l’italiano, ma anche la storia, non valgono le stesse regole. Non ci sono certezze, ogni cosa va spiegata, raccontata, bisogna essere bravi con le parole. E Matteo aveva imparato che le parole possono essere pericolose, bisogna usarle bene e quando un bimbo e un adulto si incontrano con le parole, spesso è il bambino in svantaggio, finisce quelle che ha a disposizione e non capisce quelle dell’altro. […]

In quelle prime settimane di scuola la professoressa di italiano assegnò alla classe un tema: Per conoscervi meglio e conoscerci meglio. Parlate di voi, dei vostri sogni, dei vostri progetti. Anche per questo odiava italiano.

Matteo guardava i compagni piegati sul foglio, la testa leggermente spostata a destra, il braccio ricurvo sul banco. Le penne scorrevano riempendo righe scure su fogli bianchi.

La sua era ancora chiusa, appoggiata sul banco, di fianco al foglio.

Due sole righe scritte: in alto il suo nome e la data; poco sotto, al centro, il titolo del tema.

Matteo guardò il foglio, guardò i compagni, guardò fuori dalla finestra.

Poi si alzò, scostò la sedia, prese in mano il foglio e avvicinandosi alla cattedra lo consegnò.

La professoressa alzò su di lui uno sguardo interrogativo.

«Capitello, cosa vuol dire questo foglio bianco?»

«Forse… che vorrei che la mia vita fosse come questo foglio: ancora bianca, pulita, tutta da scrivere e non scritta da qualcun altro. Posso uscire?»

«Potresti raccontare cosa scriveresti sul foglio della tua vita se fosse bianco, oppure dire chi ci ha scritto prima di te e cosa ha scritto.»

«Posso uscire?»

«Vai, Capitello, ma quando rientri ti ridò il foglio.»

Si chiese come mai alla professoressa importasse del suo foglio, della sua vita, di chi ci ha scritto e cosa. In fondo, anche lei faceva parte del mondo dei grandi, di quel mondo fatto di persone che parlano tanto e ascoltano poco. […]

Rientrato in classe, prese in mano il foglio che la professoressa gli porse e tornò a sedersi al banco. Dal fondo dell’aula osservava le nuche dei compagni. Al lato opposto, dalla cattedra, l’insegnante guardava loro; uno sguardo sereno, disteso, quasi rilassante. Non approfittava di quel tempo libero e silenzioso per correggere altri compiti, per leggere o per preparare una lezione. In quel tempo e in quel silenzio li osservava uno a uno e poi tutti insieme.

Matteo ebbe la sensazione che quella classe fosse importante per lei, che ognuno di loro lo fosse. Impugnò la penna e appoggiò la mano al bordo del foglio.

Se il foglio della mia vita fosse bianco scriverei dei numeri e delle formule, scriverei solo cose di matematica perché la matematica non fa male. I numeri sono le parole che preferisco.

Se il foglio della mia vita fosse bianco lo riempirei di amici e di persone grandi, ma che mi sanno ascoltare.

Se il foglio della mia vita fosse bianco ci scriverei sopra solo con penne colorate (rosso, giallo, verde, blu e anche un po’ di arancione) e non scriverei mai la parola “paura” e nemmeno “vergogna”.

Se il foglio della mia vita fosse bianco cercherei qualcuno che mi voglia bene e gli presterei la penna per scriverci sopra, insieme a me.

 

L'autrice
Rosella Quattrocchi, modenese del 1972, è un'assistente sociale. Dal suo soggetto di una serie TV, promosso da una nota casa di produzione, è nato il romanzo Il cacciatore di orchi.

Il libro si può acquistare qui