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Per gentile concessione dell'autrice, pubblichiamo un estratto da "La linea gialla" di Stefania Meneghella (L'Erudita editore) 

A undici anni, esiste un solo mondo ed è il mondo delle illusioni. La realtà assume l’aspetto di una sfera cristallina ed ogni momento è un attimo da racchiuderci dentro.

20200130 la linea gialla

A undici anni, si vive nell’attesa. Della grandezza, di scoprire la bellezza nelle cose vere, di conoscere il mondo.

Ma il mondo è talmente grande, ad undici anni, che si vorrebbe mangiarlo tutto, in un solo morso. Ma non si hanno le forze e, con quel corpo ancora fragile, è quasi impossibile diventare grandi, come quel mondo in cui si vive ma non si vorrebbe vivere.

È strana la vita, a undici anni. È strana perché tutto è sospeso su una linea gialla, in equilibrio tra chi si vorrebbe essere e chi è vietato diventare.

Adham aveva undici anni e il mondo in cui viveva non gli piaceva affatto. Forse fu per questo che abbandonò il suo letto di bambino, in cui i sogni avevano una casa, e si impossessò con tutta la forza che aveva in corpo di un mondo che non era il suo ma di cui voleva essere il padrone.

Si, perché a undici anni si è talmente piccoli da volersi confrontare con un batterio. Quel batterio, però, non ha la capacita di trasformarci e non può farlo. Ma ad undici anni si vuole cambiare, e cambiare davvero. Cambiare in un modo assoluto e in un modo assolutamente ingenuo.

Per questo un giorno Adham si affacciò dalla finestra della sua casa e la vide. Era bella ed apparentemente liscia; qualche curva ostacolava il cammino ma era li ed era sua.

La vide proprio dinnanzi a sé, la strada.

Uscì di corsa senza dire nulla; la madre lo rincorreva per dirgli che, in tavola, era pronto. Ma a lui, ormai, non interessava più. Si diresse verso la strada e nella strada restò. Il padre talvolta passava a controllarlo ed era felice.

«Papà, oggi vengo ad aiutarti», iniziò a dirgli spesso.

Una volta al mese.

Ogni due settimane.

Tutte le domeniche.

Poi, «Papà, posso venire i pomeriggi dopo scuola?»

«Certo, Adham… puoi venire quando vuoi».

E allora il piccolo - perché piccolo era davvero - aiutava a vendere “quelle cose”. Pacchi da scaricare, consegne da fare, mansioni diverse ogni giorno. E si divertiva, sulla strada. E stava bene.

A volte, il libro di storia se lo portava dietro e sfogliava quelle pagine fatte di uomini che erano stati in grado di raggiungere la grandezza.

Infine, la decisione.

«Mamma, Papà, voglio lasciare la scuola!».

Ajani, non appena saputa la notizia, gli si avvicinò velocemente e, abbracciandolo, gli disse: «Bravo figlio mio, hai fatto la scelta giusta!».

«La scuola non ti serve, tu sai già tutto».

«Non perdere tempo sui libri, la vita vera è là fuori».

«Ora conoscerai il mondo».

Continuava a ripetergli nei giorni successivi.

Adla, invece, non disse nulla. Scrutava da lontano l’influenza che Ajani stava avendo su suo figlio e piangeva dentro. Come uno spettatore, guardava la vita di Adham cambiare e trasformarsi in qualcosa che lei non conosceva. Forse era anche giusto cosi; forse era giusto che il ragazzo fosse “figlio del male” e che “figlio del male” restasse. Era l’amore di una madre a parlare, dentro di lei, e a soffrire. Adham era suo figlio, e suo figlio sarebbe rimasto.

A volte, si chiedeva cosa sarebbe accaduto se Adham fosse stato figlio di Ashgar, e chi sarebbe diventato.

Gli veniva sempre in mente, Ashgar e lo pensava, spesso.

Ma ormai la sua vita era una vita passata, scivolata via come un fiume, fuggita. E Adham era Adham, “figlio del male”, figlio di Ajani.

La strada, dunque, era li e li sarebbe rimasta.

Adham si buttò a capofitto sulla strada, tuffandosi di testa. Non gli importava farsi male, ma sentirsi grande, avere il potere su qualcosa, essere compreso.

Tutte le mattine si recava con il padre in luoghi sempre diversi, e aiutava a vendere “sempre più cose”. Le amicizie che si costruì erano tante e tante restarono.

C’era Belay, a cui piaceva essere il capo; Ekon, che si sentiva “il migliore”; Ayele, che per la sua voglia di potere si era rifugiato anch’egli sulla strada; Barack, che sentiva di essere cambiato; infine Jabran, il cui mondo era perduto dopo la morte di sua madre.

Si chiamavano “compagni” e si dicevano amici.

Condividevano le prime esperienze con la strada; dunque, le prime cadute, i primi incontri, gli amori perduti e ritrovati.

Adham sapeva bene ciò che faceva, e gli piaceva anche. Provava un'inguaribile ebbrezza nel stare li, con il cemento che gli toccava la pelle e spesso il cuore.

Girovagava per le strade della città e li restava; a volte si addormentava anche, e sul suo letto di bambino non voleva tornarci.

Adla spesso si nascondeva tra le pieghe della tenda e lo guardava diventare “grande” velocemente. In trasparenza, fissava suo figlio dalla sfera di una lacrima e, mentre gli occhi lucidi diventavano nitidi, pensava: "Figlio mio, dove sei?”

20200130 la linea gialla

E dov’era, quel figlio in cerca di grandezza?

Dove si rifugiava quando credeva di non farcela?

Ad Ajani faceva invece piacere tutto questo.

«Mio figlio è diventato proprio come me», si vantava in giro.

E ancora, «quando morirò sarà lui a prendere il mio posto».

«Mio figlio è il migliore di tutti, è lui il capo».

Adham ascoltava il padre e ripeteva ai suoi compagni: «sono io il capo».

E lo era davvero.

Procurava spesso “quelle cose” e, insieme, a volte le consumavano, a volte le vendevano alla gente del quartiere. I soldi gli entravano nelle tasche come fossero caramelle e a loro piaceva mangiarli, gustarli, averne sempre di più. E la strada era un buon luogo per realizzare questi sogni, per assumere il potere che cercavano, per diventare chi avevano sempre sognato.

Ognuno con una vita diversa, ognuno con una famiglia e con una storia diversa. Ma quei ragazzini - perché di ragazzini si trattava - avevano il mondo tra le mani.

L’avevano costruito loro, e loro volevano distruggerlo inconsapevolmente.

«Wagnu, ci vediamo al solito posto tra mezz’ora».

Era Adham a comandare le uscite. Il loro posto di ritrovo era il parcheggio di un supermercato, di sera, quando non c’era nessuno.

Si radunavano tutti al secondo piano di uno stabile abbandonato; per raggiungerlo dovevano necessariamente arrampicarsi. Iniziava Adham, poi tutti lo seguivano a catena.

Restavano li per ore, fino a notte fonda e, sotto l’estasi di “quelle cose”, si raccontavano momenti vissuti, paure inconfessabili, segreti, attimi che avrebbero dovuto vivere.

Avevano ormai quindici anni, e avevano già conosciuto l’orrore. Il mondo ne era indifferente, e nessuno gli aveva mai domandato, uno ad uno, «Come stai?»

Solo la strada l’aveva fatto.

Si, perché quel cemento aveva raccolto le loro anime disperse e le aveva trasformate in corpi impregnati di forza e coraggio.

A quindici anni, si ha solo bisogno di sentirsi grandi. Gli adulti fanno paura e i bambini sono troppo fragili. Non si sa da che parte andare, a quindici anni. Non si sa chi diventare e come diventarlo.

Allora ci si rifugia in un luogo fatto solo di angoli e curve; la strada non giudica. È li ed è ferma, immobile a guardare.

Quei ragazzini avevano quindici anni ed erano soli. Soli non solo nel mondo, ma dentro di loro.

Allora si buttavano a capofitto sulla strada, di testa, in attesa che qualcuno andasse a salvare quelle anime disperse tra la folla.

E non veniva mai nessuno.

Mai.

«Io sono qui», voleva dire ognuno di loro.

«Sono qui, vedetemi».

Ancora invisibile, ancora Nessuno.

«Allora divento cattivo. Cosi mi vedete?»

E niente.

«Mamma, oggi ho rubato un cellulare».

Ancora nulla.

«In galera, voglio andare».

«Vengo anche io a vendere “quelle cose”».

«Sono sulla strada, a casa non ci torno».

«Sarebbe bello uccidere qualcuno».

E nessuno si accorgeva mai di nulla, ma quei ragazzini si aspettavano solo di sentirsi dire «Come stai?» Solo quello. Niente abbracci, niente carezze. Solo il guardare negli occhi la gente e sentirsi compresi.

Si, perché a quindici anni la comprensione non è di casa, e la casa non esiste se non c’è una mano che raccoglie la tua e ti fa sentire al sicuro.

Adla con lo sguardo rivolto alla finestra a guardare la strada dall’esterno; Ajani già sulla strada ad ammirarla da dentro. Ma in mezzo c’era Adham, e affianco ad Adham non c’era nessuno.

Urlava in silenzio «Io sono qui!» in mille modi, lo diceva anche agli alberi, alle piante, al cielo troppo distante, e alle mura trasparenti che lo circondavano.

Gli occhi della madre, le mani del padre. Tutto al di fuori di lui.

Cosi a quindici anni, Adham, una sera, si recò dai suoi compagni e con lo sguardo di chi era stato deluso, gridò in modo determinato e prepotente: «Wagnu, che dite, la facciamo una bella rapina?»

E, arrivati a quel punto, non si torna più indietro…

 

Il libro si può acquistare qui

L'autrice
Stefania Meneghella nasce a Bari nel 1994. Assistente sociale con la passione per la scrittura. Ha ricevuto numerosi premi letterari tra cui il diploma di merito “AlberoAndronico: premio nazionale di poesia, narrativa e fotografia” (2013); il riconoscimento come Dama dell’Arte Premio “Federico II” (2015) e il Premio Speciale “Antonio Vivaldi” (2015). Ha fondato assieme a Manuela Ratti e Roberta Giancaspro, il sito web Kosmo Magazine, in cui ha cogestito le sezioni scrittura, interviste e libri. È presente nel sito web Pensieri Parole come autore del libro Dieci anni di Pensieri Parole. È tra gli autori della raccolta poetica Tracce edita da Pagine (2015), mentre nel 2016 esordisce con la narrativa pubblicando il suo primo romanzo Silenzi Messaggeri, edito da Albatros.


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