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L’Educatore in mare aperto. Ovvero: il curioso caso del pirata Long John Silver (NarrativaePoesia Editore, 2020) rappresenta la terza dimensione di un’intuizione che ho covato per anni e che mi ha portato prima a produrre un racconto breve, per una serata a tema organizzata da ambienti dell’educativa milanese, quindi un romanzo brillante, con protagonista un educatore al bivio (non a caso s’intitola Una pausa da me stesso) e, subito dopo, questo saggio.

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Tre livelli di una tesi e di uno scopo, per nulla ripetitivi, perfettamente autonomi ma altrettanto integrati. Un bel po’ d’inchiostro, insomma, dato che un’idea buona non è detto che esaurisca il proprio potenziale dopo solo un giro di giostra. Anche perché c’è bisogno di letteratura, su questo tema, essendo la professione dell’educatore relativamente giovane e ancora poco indagata.

Se è vero che in ambito pedagogico, in senso lato, la produzione scritta riempie le librerie, è altrettanto palese come sia invece carente di prospettiva il settore dedicato agli studi meno accademici e più calati nel concreto della professione. Non circolano infatti molti testi del genere, che potremmo definire esperienziale. Si fa molta teoria, si definisce la prassi, si esaminano casistiche esemplari, ma raramente si va a raccogliere la testimonianza diretta dell’educatore. E questo è uno dei motivi per cui reputo interessante il mio contributo che, pur presentando anche una parte più generale, in funzione della preparazione del terreno di gioco, concentra tutta la propria ragion d’essere nella fusione tra i miei vent’anni di esperienza sul campo, l’adempimento di studi universitari e l’incarnazione metaforica di uno dei più celebri personaggi della Letteratura universale.

E qui può essere che qualcuno s’irrigidisca davanti alla mia idea di mettere nella stessa frase l’educatore e un pirata. Com’è possibile? In virtù di quale atteggiamento provocatorio si può accostare una canaglia patentata (“uomo libero, gentiluomo di ventura e nemico dell’umanità”, si definisce lo stesso Silver) a un ruolo professionale e sociale eticamente forte come quello dell’educatore?

Proviamo a spiegarlo per sommi capi, lo spazio qui a disposizione non è quello di un intero libro. Diciamo innanzi tutto che alla fonte dell’opera c’è una suggestione remota. Se la dimensione paterna di Silver, nei confronti del giovane Jim, è qua e là trattata dalla ricerca di settore, è invece originale l’approccio che sovrappone certe doti personali di Silver e certe dinamiche relazionali (intercorrenti tra lui e Jim Hawkins) con quelle che afferiscono all’ambiente in cui opera l’educatore.

Ora, va da sé che la metafora comporti un certo grado di passione per il paradosso e richieda un lavoro di disambiguazione a monte, per non perdere senso e sfociare nella boutade. Ma, una volta effettuato il distinguo, la sfida si fa pulita, quasi limpida, e la presa in carico del giovane Jim – orfano di padre e debole di madre – da parte di John Silver, rivela tutte le sue implicazioni pedagogiche.

Silver si fa affidatario del mozzo e lo porta dentro un’avventura. Lo svezza, lo blandisce, lo accompagna. Lo minaccia, lo incalza, lo insegue e lo persegue. Lo protegge. Se ne occupa, lo lega a sé e poi lo emancipa. Insomma, lo educa, sulla scorta del fatto che non esiste educazione senza relazione.

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Esageriamo: alla fine lo tradisce, pure, ma di un tradimento quasi codificato, funzionale. No, non inorridite, perché l’educatore anche questo fa: tradisce. Infatti un educatore raramente è per sempre. Silver possiede molte doti in comune con l’educatore e si dota di una formazione e una preparazione al compito rigorose. Al suo compito, ovviamente, che è quello di pirata e che svolge in modo esemplare, professionalissimo. Sarebbe lungo qui proporne un elenco e ha più senso incassare fiducia, oppure scetticismo, e invitare alla lettura del saggio, per vedere l’effetto che fa, come cantava Enzo.

Più utile risulta alzare l’asticella della simbolizzazione dei ruoli e dei destini. Perché Silver e l’educatore ne condividono parecchi, di destini. In primo luogo, esattamente come il pirata di Stevenson, anche l’educatore è un personaggio di fantasia, al limite quasi della mistificazione. E se non mi credete, allora fate un salto in piazza Duomo, a Milano, o in un’altra piazza a vostra scelta, fermate cento persone e chiedete loro di dirvi chi sia e che cosa faccia un educatore. Assicuratevi però, prima di cominciare, di avere vicino un paio di gradini o un panettone di cemento sui quali sedervi, per non stramazzare al suolo subito dopo le prime risposte. Che, per l’appunto, descriveranno un personaggio assolutamente irreale. Pirandelliano, quasi.

Ma c’è di più. Silver e l’educatore sono sì personaggi di fantasia, ma sono anche figure incredibilmente reali. Chiunque abbia letto il capolavoro di Björn Larsson La vera storia del pirata Long John Silver, potrà dirvi quanto sia impossibile sospettare, anche solo per un’istante, che quella che scorre, pagina dopo pagina, non sia la biografia di una persona in carne ed ossa. Figure reali che si muovono in mari aperti. E sia chiaro: abbiamo detto mari aperti, non in alto mare. Perché tra l’idea di alto mare e quella di mare aperto corre la stessa, enorme differenza che corre tra un problema e un’opportunità.

Lo spazio è tiranno e lascia solo la possibilità di una citazione significativa. Troverete davvero molti punti di contatto insospettabili ma tangibili, in questo saggio, e non tutti in senso edificante, ma tutti decisamente umani. Come questo:

 

“Silver è uno che si arrabbia. Inutile spendersi in citazioni, perché tanto lo fa sempre, ogni due pagine e ogni tre scene. Si arrabbia coi nemici e con gli amici, con Jim, con le circostanze, i contrattempi, le sconfitte. E si arrabbia con se stesso, perché non gli piace deludersi. E un educatore? Quanto si arrabbia un educatore? La domanda è forse posta in termini sbagliati, perché in realtà non è una questione di quanto, ma di come. Un educatore che creda nel proprio lavoro si arrabbia tanto e spesso, solo che, a seconda del carattere, lo farà platealmente oppure in sordina. Si arrabbia con un progetto che ristagna, per un provvedimento incomprensibile, per la sofferenza di un minore. Si arrabbia coi ragazzi, cento volte al giorno e per cento diversi motivi. Si arrabbia per stanchezza o frustrazione, coi colleghi, con l’Assistente Sociale, col giudice, le famiglie e col mondo intero. […] A volte lo dice, che è arrabbiato, spesso invece se lo tiene per sé, perché non sempre è il caso, perché a volte nemmeno ne ha diritto. E si arrabbia con se stesso, per i propri errori, le proprie mancanze, le proprie inettitudini. O per essersi deluso.
Io mi sono arrabbiato molto e so di aver fatto arrabbiare. È un lavoro di forti tensioni e di aspettative importanti, quello dell’educatore. Certe arrabbiature si risolvono e passano. Altre non molto. Alcune arrabbiature prendono le sembianze di rancori profondi, di quelli che fanno dubitare di sé, della propria levatura, della capacità di elaborare e rielaborare. Qualche volta passa, ma qualche volta no. Sovente si lavora arrabbiati e in taluni casi ciò può tornare utile, perché si genera una condizione vigile che affila la determinazione, carica le energie, rompe gli indugi. Altre volte no, poiché obnubila le menti, compromette la capacità di giudizio, rende impulsivi e ingiusti”. 

Il libro si può acquistare qui

Iuri Toffanin
È nato a Desio nel 1970. Ha conseguito una laurea in Storia Medievale, a Milano, e una in Scienze dell’Educazione, a Roma. Vive da qualche anno in Baviera con moglie e tre figli e lì esercita le professioni d’insegnante d’italiano per tedeschi e di educatore scolastico. In Italia ha lavorato per vent’anni in comunità per minori e ha pubblicato diversi contributi di settore. Coltiva la passione per la Letteratura e ama i libri, a cui si dedica tanto in veste di lettore che di scrittore.

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