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Pubblichiamo un estratto dell'intervento di Elena Buccoliero nel quaderno "Riconoscere la violenza o negarla" (maggio 2014). ll quaderno raccoglie gli atti di un ciclo di incontri proposto dalla Scuola della Nonviolenza. Scopo del percorso era mettere a fuoco i meccanismi di negazione della violenza maschile nelle relazioni d’intimità, meccanismi presenti in tutti gli attori coinvolti: gli uomini maltrattanti per giustificare i loro comportamenti, le donne maltrattate per rimanere nella relazione nonostante tutto, i figli per giustificare i genitori e infine questi ultimi, per non intaccare la propria immagine di “bravo papà” e “brava mamma”.  L’iniziativa era inserita nell’ambito del progetto “Violenza di genere e rete locale” coordinato dal Comune di Ferrara, partecipato da Centro Donna Giustizia, Centro di ascolto uomini maltrattanti e Movimento Nonviolento, e realizzato con il contributo del Dipartimento per le Pari Opportunità. 

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Raccontare la violenza è sempre difficile?

Un padre che picchia è un padre cattivo, e a nessun ragazzo piace dire questo del proprio genitore, perciò lo difende finché può. Qualche eccezione però c’è. Un genitore che diventa manesco perché beve, o si droga, o ha un problema psicologico, diventa dopotutto una vittima di un male esterno, raccontabile, mentre il genitore può essere perdonato. Con la speranza per il futuro che, se il padre smetterà di essere dipendente o farà le cure giuste, ridiventerà buono come in qualche periodo è stato veramente, o come il figlio vorrebbe che fosse.

E se la convivenza con il genitore maltrattante è interrotta?

Occorre distinguere due casi. Il primo è quello dei minori che a causa della violenza di uno sono allontanati da entrambi i genitori e vivono in un nuovo contesto affettivamente ricco, ad esempio una famiglia affidataria che si prende cura di loro in modo attento e tenero, in qualche modo risarcitorio di ciò che hanno subito. Questi ragazzi tendono a rimuovere il ricordo della violenza, specie se avvenuta quando erano molto piccoli, così da salvaguardare una rappresentazione positiva dell’infanzia che non ricordano più.

Quelli che subiscono una condizione di istituzionalizzazione, anche se riuscita, negano o sminuiscono i problemi incontrati in passato pur di sorreggere l’attesa di un ricongiungimento familiare. Ti faccio l’esempio di questo ragazzo che era stato inserito in struttura con la mamma per le violenze del padre, poi la mamma è tornata col marito più volte portando con sé i figli nonostante ogni volta i maltrattamenti si ripresentassero e alla fine il ragazzo è rimasto in comunità senza di lei. “Il vantaggio in casa famiglia è che non ci sono più litigi”, mi ha detto Marco, 17 anni, “però, quando questi litigi non c'erano, si stava più che bene in casa nostra”.

Come dire che un figlio preferisce vivere con il genitore violento piuttosto che in una struttura?

Non credo sia così. Faccio un esempio che forse semplifica un po’ le cose ma aiuta a capire. Ci sono persone che vivono una relazione sentimentale che le fa soffrire molto; ad un certo punto la interrompono perché non ce la fanno più, ma quando la solitudine si fa sentire tendono a rimpiangerla e a ricordarne soltanto gli aspetti positivi. Ecco, a me pare che per questi ragazzi sia un po’ la stessa cosa. Hanno la nostalgia di una famiglia, non della loro famiglia, ma non ne hanno un’altra da immaginare o alla quale tornare, quindi la ricordano ripulita di tutti i motivi per cui sono stati così male durante gli anni di convivenza. Mettici anche il fatto che ammettere l’inadeguatezza dei propri genitori relega in una condizione di anormalità rispetto alla generalità dei ragazzi, è quasi un’onta personale, anche se i ragazzi non sono certo responsabili per gli errori dei loro genitori.

Nelle famiglie straniere i meccanismi sono gli stessi?

Gli stessi, e qualcuno in più.
Ho incontrato nuclei familiari dove le violenze erano legate ad un conflitto culturale in atto, che di frequente era anche un conflitto tra generazioni. Un padre che punisce alzando le mani viene in parte giustificato dai figli, i quali sanno che quello è un modo di fare diffuso nella cultura d’origine e che il padre è cresciuto con quell’insegnamento.

Ricordo una ragazza indiana di 15 anni che aveva reagito a maltrattamenti pesantissimi assumendosi la responsabilità di consolare e difendere la mamma dal padre, un uomo violento in famiglia così come gli era stato insegnato: “Mia madre si confida con me di tutti i suoi problemi e quando litigano io la difendo, anche fisicamente. Io faccio karate e riesco a intervenire senza farmi male. Blocco mio padre. In quei casi prevalgo io. I miei fratelli sono sempre stati fuori dai litigi tra i miei genitori perché la responsabilità la prendevo io. Sapevo anche i motivi dei litigi perché mia madre me li diceva, e potevo reagire sia psicologicamente sia fisicamente”.

Scegliere di fare karate per poter lottare con il padre non è un passaggio da poco. Senti poi, però, come parla del papà:
“Verso mio padre avevo una specie di odio perché alzava le mani a mia mamma. Nello stesso tempo una parte di me non lo odiava. Mio padre è il miglior padre che potrei trovare, solo che dopo queste discussioni le persone lo vedono in modo diverso da come lo vedo io. Venendo qui avevo pensato di dirlo. In tante famiglie indiane gli uomini picchiano le donne e mio padre fa fatica a capire che è sbagliato. Mia madre però non accetta le botte e in questo sono d'accordo con lei”.

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Dunque i maltrattamenti sarebbero meno gravi quando trovano una legittimazione culturale?

Non è questo il punto. Ti rispondo con le parole di una ragazzina cinese (12 anni) pesantemente picchiata dalla mamma qui in Italia, ma cresciuta con una sorta di genitori affidatari in Cina fino a un anno prima. Questa ragazzina protesta energicamente di fronte all’idea che nella sua cultura sia normale picchiare i bambini: “Non è vero! Al massimo una sculacciata, oppure ‘mio padre in Cina’ mi spiegava a parole perché devo studiare di più, mi parlava del mio futuro. Se tutte le famiglie cinesi picchiassero, i bambini sarebbero tutti in comunità e non è vero!”.

Si potrebbe dire che dove picchiare i bambini è considerato normale, i bambini non vanno in comunità…

E anche questo è vero, ma è un passaggio difficile per la mia piccola interlocutrice. Certo, certe trasformazioni nello stile educativo sono lunghe, lente e progressive, mai univoche. Non per questo, secondo me, faremmo bene a legittimare la violenza in determinati contesti culturali, o ad applicare le norme in modo differenziato secondo i casi.
Sarebbe come dire che il nostro codice penale deve reintrodurre il delitto d’onore, vista la frequenza con cui gli uomini uccidono le partner che vogliono lasciarli o che li tradiscono. Non credo sia una soluzione accettabile. Occorre ritrovare il senso della responsabilità individuale e aprire su questo una riflessione seria, trasversale alle culture, che sappia prevedere interventi di mediazione culturale, per esempio, anche proprio su questi aspetti della violenza. È un ambito su cui secondo me si può fare molto di più, ma ci vogliono risorse e volontà precise, sapendo che i frutti di questi processi si vedranno probabilmente nella generazione successiva.

La maggioranza dei ragazzi che hai incontrato, però, vive con la mamma mentre il maltrattante era il padre. E in questo caso che cosa ti raccontano i bambini?

Chi ha accanto a sé un genitore protettivo racconta la violenza e la condanna. Posso proporti qualche frammento dai colloqui con i ragazzi.
Serena, 11 anni: “Io mi ricordo che quand'ero piccola, per molto tempo, loro litigavano tutti i giorni. Andavano a litigare in un’altra stanza e una volta ho spiato, ho visto che la mamma stava piangendo. Mio padre si faceva tutto ragione lui, ovviamente. Io non l'ho mai visto alzare le mani ma alzare la voce sì e anche tanto, e dice cose talmente brutte che fanno male come se picchiasse. Quando faceva così avrei voluto, a volte, tirargli un pugno in mezzo agli occhi ma ho evitato sperando che quelle cose, il papà, non le pensasse veramente. E poi se dico qualcosa si arrabbia ancora di più”.

O Luca, 15 anni, che è intervenuto a separare i genitori quando ancora vivevano insieme:
“Una volta era successo che mio papà ha preso per la gola mia mamma e io sono intervenuto, ho preso per la gola lui e l'ho spinto via e gli ho detto: ‘Ora la mamma non la tocchi più, oppure intervengo io e andiamo all'ospedale tutti e due’. Quella sera ho dormito dalla nonna... L’ultima volta papà viene in casa arrabbiato e minaccia la mamma. ‘Ti ammazzo, ti seppellisco!’. Io ho detto a mia mamma: andiamo dagli operatori. E a loro ho detto: ‘Fate qualcosa perché io non posso fermare mio papà, io sono un ragazzo, lui è un adulto. Posso trattenerlo per un po' ma non per molto’. Ci hanno portati in una comunità e ora va meglio”.

Il genitore non maltrattante è sempre protettivo?

Non sempre, o almeno non subito. Non lo è nella misura in cui continua a vivere con il partner violento e mantiene in questa situazione i figli, ma qualche cosa di strano si osserva anche dopo l’interruzione della convivenza.
Una ragazzina mi ha parlato di un periodo in cui la mamma alzava le mani con lei. È accaduto subito dopo la separazione: “Quest'anno non mi succede più di piangere a scuola, un po' perché ho un anno in più e mi contengo, un po' perché certe cose sono cambiate. Mia madre mi picchiava; è successo l'anno scorso, ora non lo fa più e non ho più paura di lei. Mia madre era stressata, non capivo mai il perché. Ora io e lei parliamo. Mio padre invece ha sempre la faccia nervosa”.

A volte è chiedere troppo aspettarsi che il genitore vittima di violenza sia equilibrato, lucido, affettivo, non giudicante verso l’altro genitore, al tempo stesso non collusivo… Sembra più realistico prendere atto che l’esposizione alla violenza produce traumi e questi traumi richiedono di essere accolti e trattati opportunamente, negli adulti come nei minori.

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Quale ricordo o quale rapporto rimane con il genitore violento non più convivente?

Se l’allontanamento dal genitore violento è recente o se il bambino è piccolo – diciamo, prima delle scuole “superiori! - il figlio in genere spera in un cambiamento da parte del padre. L’attesa si spegne se i fatti avvenuti sono molto gravi e/o persistenti nel tempo.

Lo dice chiaramente questa ragazzina di 13 anni: “Il papà non è cambiato negli anni, è stato sempre così. Non conosce i miei professori, non è mai venuto a scuola. È venuto una volta a vedere uno spettacolo di danza e ha detto che non so ballare - è stato due estati fa, avevamo già vinto i campionati regionali. Credo non si accorga che ci resto male”.

O di nuovo Serena, 11 anni: “Anche ora i miei genitori non vanno d'accordo, e lui sicuramente odia la mamma. Quando il papà perde il controllo dice ancora cose bruttissime su di me e sulla mamma. Dice che io sono una troia e anche la mamma, bestemmia dio, urla contro chiunque gli parla in quel momento e soprattutto contro la persona con cui è arrabbiato. Questa cosa succederà una settimana sì e una no...”.
Nella relazione con il padre violento subentra a volte qualche piccola astuzia.

Ad esempio?

Beh, per esempio evitare di toccare certi argomenti, non raccontare al padre che la mamma ha un nuovo compagno. Anche quando parlano di sé con il padre i ragazzi scelgono quali informazioni condividere. Senti ad esempio questa ragazzina di 12 anni: “Mio papà vuole sempre sapere tutto, anche quello che dico alla psicologa o all'assistente sociale. La psicologa non vuole che io racconti, mio padre mi fa l'interrogatorio e allora io gli dico che lei è in ferie, difatti lui pensa che lei non lavora mai”.

Tra i ragazzi che hai incontrato ci sarà anche chi ha perso le tracce del genitore maltrattante.

Sì, è così. Sono 9 minori e, tra questi, tutti tranne uno hanno scelto di chiudere la relazione. Complessivamente fanno riferimento a 6 dei nostri 20 nuclei familiari, e devo dire che i comportamenti osservati o subiti sono stati di estrema gravità, con pericolo per la vita propria o della madre. Stando agli atti, tra i nove minori che ho ascoltato, almeno sei sono stati presenti mentre il padre minacciava di morte la mamma, anche se solo alcuni di essi se ne ricordano.

Voglio farti ascoltare ciò che alcuni questi ragazzi mi hanno raccontato parlando del genitore violento:
“Mi picchia mia madre, mio fratellastro e a volte anche mia zia. Lui una volta mi ha dato un pugno sulla testa che non vedevo più niente. Mia madre mi picchiava con la cinghia ogni volta che tornavo a casa, ho ancora i segni. Dicevano che sono brutta e stupida, che non sono come gli altri. Non ce la facevo più, ho provato a uccidermi. Volevo buttarmi dalla finestra della scuola ma mi hanno fermato. Volevo ingoiare delle medicine ma una mia amica è intervenuta. Non avevo pensato di chiedere aiuto perché ho paura, troppo, di mia madre. Loro quando mi picchiavano dicevano: ‘Se lo racconti, dopo non puoi più andare a scuola’. Meglio morta che ritornare a casa”. (Lyu Jo, 13 anni).

“Sono venuto in Italia nel dicembre 2005 e non mi ricordavo di mio padre. Qui, dopo una settimana ha iniziato a litigare con mia madre, dopo un paio di mesi con mia sorella. Ogni giorno cercava un motivo per litigare, soprattutto negli ultimi anni. Quando litigava con me, mio padre mi dava le botte invece di parlare. Io non potevo dire niente, dovevo solo subire e stare zitto. Lui decideva tutto in casa, qualsiasi cosa, anche quando aprire o chiudere la finestra. Mia madre non poteva avere amiche, doveva uscire solo per lavorare o a fare la spesa con lui. Io adesso vorrei evitare di parlare con mio padre. Me lo vorrei scordare”. (Ahmed, 16 anni)

Come vivono il fatto di non avere più contatti con uno dei loro genitori?

Con sollievo. È una liberazione dopo anni di tormenti, paure, violenze, delusioni. Come per Nicolas, 14 anni:
“Mio papà non lo vedo più perché mi sento più tranquillo così. È stata una mia scelta. Più o meno avevo 12 anni. Lui faceva sempre domande su mia mamma, nei colloqui protetti con gli operatori, e ho chiesto di sospendere per una settimana. Poi ho visto che stavo bene, mi sentivo più tranquillo, e ho deciso di smettere di vederlo”.

Alcuni aggiungono una freddezza quasi ostentata, sicuramente connessa a comportamenti gravissimi del genitore: “Non lo vedo da tre anni e non mi è cambiato niente. Il rapporto con lui negli anni precedenti non era padre-figlia. Mi ha messa al mondo ma non l'ho mai visto veramente come padre, forse per tutte le cose che sono successe in casa. Fin da piccola ho visto tante scene, l’ho visto mentre picchiava mia mamma… Io avevo paura. Non ricordo tutti i fatti ma sono sicura che lui alzava le mani. Spesso ci ripenso e mi viene tanta rabbia. Avevo paura a stare con lui, anche solo per andare a vedere il circo o pranzare insieme. Col passare dei giorni e degli anni mi rendo conto che sto meglio senza di lui perché non ho più quelle paure che avevo, quelle preoccupazioni. E anzi vorrei andare il più lontano possibile da lui. Non lo incontro, ma anche sapere che sta nella mia stessa città è troppo, voglio allontanarmi da lui e dai cattivi ricordi” (Viviana, 15 anni).

Che scorza!

Sì, e qui c’è anche l’adolescenza che fa la sua parte nel costruire una corazza nei riguardi dei genitori. Comunque, per tutti questi ragazzi la freddezza e il rifiuto si collocano in una fase particolare della relazione col genitore. Hanno già speso tante attese, speranze, tentativi falliti di costruire un rapporto. Per diverse volte si sono recati ad un incontro protetto aspettando qualcuno che non arrivava, hanno aspettato una telefonata o una visita negata nei fatti, hanno chiesto alla mamma di dare al padre una seconda possibilità e lui ha ripetuto le stesse prepotenze…

I più piccoli sperano ancora. Senti infatti questa bimba di 10 anni, Clara, che non vede il padre da diverso tempo perché è lui a non cercarla più e a non farsi trovare: “Mi ricordo quando il babbo mi picchiava, non si può dimenticare una cosa così brutta. Lui non si chiede se noi abbiamo da mangiare, una casa o dei vestiti. Noi ce le abbiamo tutte queste cose ma lui non ci pensa, perché l'assistente sociale dice che prova a chiamarlo e lui non risponde. Io a volte faccio delle preghiere a Gesù, "ti prego fai che babbo viene a un incontro", così lo posso vedere”.

la seconda parte dell'intervento verrà pubblicata nei prossimi giorni

 

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è docente a contratto all’Università di Parma sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti e svolge attività di formazione, ricerca, supervisione e sensibilizzazione su bullismo, violenza di genere e assistita, diritti delle persone minorenni. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Ha diretto la Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati (2014-2021) e l’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara (2013-2020). Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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