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Compie due anni la sperimentazione di un modello innovativo di presa in carico educativa di minori in condizioni di svantaggio promossa da Arimo Cooperativa Sociale, all’interno del progetto Tra Zenit e Nadir sulla giustizia riparativa finanziato da “Con i Bambini” : il Centro Diurno Diffuso.

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A questo link https://percorsiconibambini.it/trazenitenadir/il-progetto/ si può leggere la presentazione del Progetto.

Per Arimo, nello specifico, l’attività progettuale ha rappresentato una risposta all’esigenza di avere un presidio educativo forte anche per ragazzi che, per diverse ragioni, non possono essere collocati in una comunità educativa.

Abbiamo chiesto al responsabile del servizio, Alberto Dal Pozzo, e ai Tutor per l’autonomia Lia Ferrario e Sergio Panigada, di raccontarci questa interessante esperienza che intende accreditarsi come possibile alternativa ai dispositivi pedagogici residenziali.

Iniziamo con un’intervista ad Alberto.

Come è nata l’idea di questo servizio?

Il progetto nasce a partire dalla specifica visione pedagogica di Arimo, un’impostazione che abbiamo definito e consolidato con il lavoro svolto all’interno delle nostre comunità, per la quale il rapporto con la realtà è considerato assolutamente promotore di trasformazione e cambiamento. L’attività del Centro Diurno Diffuso si colloca nel pieno della realtà, liberando del tutto la relazione educativa dalla componente residenziale – quella della custodia e della protezione, della tutela. Nel Centro Diurno Diffuso spostiamo tutto il nostro lavoro su un piano relazionale e educativo, nel rapporto con il mondo, con la vita. Arimo ha sempre cercato di realizzare progetti che andassero a intercettare bisogni e problematiche degli adolescenti, agevolando o sbloccando il processo evolutivo, e la dimensione comunitaria, quella della vita reale, è fondamentale per riuscirci.

Mi spieghi cosa significa il vostro nome e se questo nome riflette il senso del progetto?

Centro Diurno Diffuso. È un nome che non ci soddisfa pienamente e che vorremmo cambiare. L'intento era quello di mettere insieme, di fare sintesi, appunto, tra la non residenzialità dell’azione educativa e l’idea di un intervento diurno e diffuso sul territorio. Realizzato in un ambito sociale, attraverso un lavoro svolto con il coinvolgimento di una pluralità di attori a livello territoriale. Per cui, forse, fra le tre parole, quella che più indica il senso e l’intenzione del progetto è quella che rimanda alla diffusione. Un progetto che non si struttura all'interno di uno spazio unico e predefinito ma che, di volta in volta, rispetto ai bisogni del ragazzo, all’istanza del tribunale o del servizio sociale, va a definire i luoghi in cui si realizzerà. È una progettualità che attinge le sue risorse dalla realtà milanese. 

Operate al di fuori delle comunità, quindi da un luogo che in qualche modo contiene, anche fisicamente, i ragazzi. Però allo stesso tempo sostieni che esercitate un presidio educativo forte. Puoi spiegare cosa significa questo? Come sia possibile?

Significa che noi cerchiamo di costruire sì un contenitore, ma un contenitore progettuale allargato. Il presidio educativo è forte, perché andiamo a costruire dei rapporti e delle relazioni con gli attori del territorio, che possono essere i datori di lavoro, lo psicologo, l'allenatore di pugilato, la responsabile dell’ente dove il ragazzo o la ragazza fanno il volontariato, e così via. Si va a costruire con questa rete allargata un grande contenitore con il quale noi ci teniamo costantemente in contatto e con il quale abbiamo uno scambio, periodico e strutturato, su tutto quello che avviene. Su quello che il ragazzo fa, quello che il ragazzo esprime, quello che emerge dal suo rapporto con i diversi soggetti e contesti con cui entra in contatto.

Il presidio educativo è forte perché ci occupiamo a 360 ° del ragazzo o della ragazza; ha l’intensità di una presa in carico comunitaria, perché noi andiamo a lavorare su tutte le aree di personalità e le questioni educative che possono riguardare e interessare quel determinato giovane. Non ci occupiamo solo del lavoro, solo dell’aspetto ludico-sociale, o soltanto dell'uso e di sostanze, o della sofferenza psicologica, ma di tutto, anche del rapporto con la famiglia, ad esempio.

Quindi si può dire che c'è anche una diffusione della responsabilità educativa, che l’azione educativa grazie a questa impostazione di rete si potenzia?

Certo. In questo modo, poi, si riconosce che quella responsabilità è necessariamente condivisa e diffusa. È dell’intera società. Andiamo a fare leva su questo, tanto che il progetto parte dai principi e dai paradigmi della giustizia riparativa, che prevedono proprio l'ingaggio della società.  Qual è la risposta della società, al reato, alla condizione del reo, alla condizione del minore straniero non accompagnato? Noi rispondiamo a questa urgenza, andando a lavorare a livello territoriale e condividendo con la comunità la responsabilità educativa del percorso di un giovane.

Vorrei capire meglio come si differenzia questo modello educativo da quello residenziale. Quali sono i suoi tratti distintivi? Cosa manca al modello residenziale che questo invece ha?

Non deve essere visto in termini di differenze o in modo alternativo. Accade che uno strumento sia più adeguato dell’altro, per un ragazzo o una ragazza, in quel particolare momento della sua storia. Ci sono ragazzi e ragazze che vanno staccati da casa, almeno per una fase della loro crescita. È necessario perché magari in casa c'è pericolo, ci sono abusi, oppure perché lasciati a se stessi i ragazzi rischiano di commettere reati, insomma, una serie di questioni per cui il Servizio Sociale pensa a un collocamento in comunità. Per altri ragazzi e ragazze, invece, per caratteristiche di personalità o per il loro vissuto, è meglio non andare via da casa. Ripeto, il momento biografico è molto importante. Per alcuni giovani la Comunità diventa un boomerang. Rappresenta l'ennesimo contenimento contro il quale i giovani magari faranno emergere nuove problematiche, entrano in un rapporto solo conflittuale. Non evolvono, ed è bene che non ci vadano. Meglio per loro, piuttosto, essere presi in carico dal Centro Diurno Diffuso, che è uno strumento educativo a sé stante, con le sue caratteristiche peculiari.

Nel concreto cosa fate? Puoi descrivere il progetto tipo di un ragazzo?

Nel concreto, conosciamo un ragazzo, ci confrontiamo con il Servizio sociale, capiamo un po’ quello che potrebbe essere l'ingaggio, quindi la richiesta, il mandato del Servizio sociale per quel caso specifico. Approfondiamo bisogni, necessità, obiettivi da raggiungere e andiamo sul territorio a cercare possibili risposte alle sollecitazioni, ai bisogni che il ragazzo ha espresso.

Il Centro Diurno Diffuso nasce nel contesto e nell'ambito penale minorile, quindi all'interno di una cornice definita. Ci sono però anche altre tipologie di giovani che accogliamo; ad esempio, seguiamo ragazzi arrivati come minori stranieri non accompagnati, che al compimento della maggior età necessitano di supporto per la costruzione dell’autonomia; seguiamo alcune ragazze inviate dalla Neuropsichiatria della Uonpia di Bollate, Rho, per le quali la cornice, le attenzioni, sono altre. La costante, da un caso all’altro, è che manteniamo una relazione continua con il ragazzo e con gli attori che abbiamo individuato per il suo progetto.

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Ci sono altre opportunità o specificità educative che vuoi sottolineare?

Questo tipo di intervento in un certo senso semplifica il rapporto fra educatore e educando, perché mette da parte la costrizione. La Comunità è in genere vissuta dagli ospiti come una sorta di ingiustizia, di coercizione, di obbligo al quale devono sottostare ma contro cui si pongono in modo oppositivo e, in quel contesto, la motivazione va cercata. In qualunque processo educativo, la motivazione va sollecitata e poi si rinnova. Però, chiaramente, la Comunità è un punto di partenza più duro, più complesso. Invece, il rapporto sviluppato sul territorio, anche in un bar,  in un giardino, su una panchina, consente di pensare e di vedere il ragazzo in forma molto libera, e al ragazzo di vedere in forma molto libera l’operatore. Viene evitato il dualismo educativo che sempre si verifica in comunità: da un lato i ragazzi, dall’altro gli educatori.

Ogni luogo della società può diventare un contesto educativo.

Tutto può costituire un setting, sì, c'è maggiore libertà, una maggiore possibilità di movimento. E, in un certo senso, il ragazzo si sente anche un po’ più sollevato e libero nel rapporto. Viene messa da parte la pesantezza relazionale provocata dalla costrizione.

Quali difficoltà avete incontrato?

La difficoltà, chiaramente, è che se il ragazzo non si fa agganciare il processo si risolve subito, proprio perché manca ogni forma di contenitore fisico e di contenimento. O si crea veramente un ingaggio, un interesse, oppure ragazzi e ragazze possono facilmente uscire dal progetto. Con la Comunità è un po’ più complicato farlo.

Questo può essere un limite o un problema con i Servizi sociali? Un servizio così innovativo, così “fluido”?

Può essere un limite, ma anche e soprattutto un’opportunità, proprio perché per alcuni ragazzi va bene uno strumento contenitivo, per altri no. È innovativo, e parte del mio lavoro consiste nello spiegare ai  Servizi come funziona. I Servizi sociali sono molto interessati alla tutela, in particolare quelli legati al Tribunale. Tutela, protezione, rischio, sono parole che creano una sorta di gravità, si fa fatica ad allontanarsene. L’esigenza di tutela, però, non può diventare un fattore cui sacrificare spinte evolutive che puntino più sulla sperimentazione e sull’autonomia. Un eccesso di tutela rischia di diventare un impoverimento, una non attribuzione di responsabilità. In una prospettiva di crescita, invece, è importante puntare anche sul rischio, sulla vertigine, situazioni in cui il ragazzo viene messo di fronte alla possibilità di scegliere e viene spinto a fare un passo in avanti, ad evolvere. Troppa tutela può provocare gli stessi effetti di un’assenza di tutela. A partire da queste constatazioni i Servizi possono iniziare a comprendere il valore di questo strumento educativo.

Quali sono le competenze specifiche di Arimo sulla base delle quali avete costruito questo progetto?

Lavoriamo con gli adolescenti da vent'anni, con le loro problematiche abbiamo sicuramente molta confidenza. L’altra nostra competenza specifica, costruita a partire da quello che è da sempre la nostra impronta pedagogica, la nostra cultura, è quella di saper lavorare a stretto contatto con la realtà, con il mondo. Anche le nostre comunità sono sempre state in dialogo con l’esterno, con il territorio.

Che importanza ha il servizio di inserimento lavorativo in questo progetto? È una sua peculiarità?

L’orientamento scolastico e professionale, l’inserimento lavorativo sono sicuramente un nostro punto di forza nel contatto con la realtà e la società in cui devono trovare un ruolo i nostri ragazzi. La costruzione di una vera autonomia, che sia sostenibile nel “dopo”, passa da lì, e Arimo ci crede profondamente: da sempre si impegna nel garantire a tutti i suoi utenti l’accesso a questa area cruciale. È uno strumento prezioso e decisivo per avviare i ragazzi verso l’autonomia e l’adultità, forte di una competenza e di una facilità, sviluppate negli anni, di cercare e di entrare in contatto con realtà di formazione e lavoro sul territorio.

Ciò detto, non esisterebbe il Servizio di Orientamento Professionale al di fuori della responsabilità e della relazione educativa, anzi, è nel dialogo tra queste due che si creano i progetti dei ragazzi sul territorio.  

Come pensate di rendere sostenibile questo servizio una volta conclusa la fase progettuale?

Il nostro servizio non è ancora una Udo (unità di offerta) riconosciuta dalla Regione Lombardia, l'unica che potrebbe regolamentarlo e certificarlo. Per mantenerlo e farlo continuare, occorre una sperimentazione, riconosciuta chiaramente anche dal Comune di Milano, il quale è importante che collabori e contribuisca alla promozione di una fase sperimentale, per arrivare a un servizio che possa poi essere utilizzato formalmente dai servizi sociali. Il Centro Diurno Diffuso non rientra ancora nel catalogo dei servizi alla persona. Esiste poi la possibilità di una sostenibilità legata ai privati, non solo le famiglie ma anche, ad esempio, la neuropsichiatria, come dicevo prima.

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Ubiminor aveva già presentato il progetto “Tra Zenit e Nadir” e le attività del Centro Diurno Diffuso di Arimo in questo articolo.
Un primo racconto sulle attività del Centro Diurno Diffuso a questo link


Informazioni e contatti per le attività del Centro Diurno Diffuso di Arimo a questo link.

 


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