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Dopo uno scontro, un diverbio pesante con un figlio o una figlia, in cui magari sono anche volate parole grosse, si è sbattuta una porta o è scappata una frase che non si sarebbe voluto dire e che pesa ancora di più in quanto adulti e genitori, si rimane scossi, così come sono scossi i ragazzi. Quel momento passa ma rimane poi un certo silenzio, una ferita. È questo che occorre saper evitare.

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Un genitore in genere dentro di sé pensa che a quel punto, dopo la discussione, il figlio abbia bisogno di stare un po’ per conto suo e magari crede che sappia che il padre o la madre non abbiano detto o fatto apposta quella cosa che li ha feriti. Ma è quello che concretamente avviene dopo il litigio che conta, spiegano gli psicologi che si occupano di famiglie, non quello che si crede o immaginando che stia accadendo.

Occorre compiere piccoli gesti di riparazione che riaccendano la luce della relazione e aiutino i figli a sentirsi di nuovo al sicuro.

Si tratta di tornare da loro dopo un conflitto, non per rimproverare, ma per ristabilire un legame, in modo empatico, con consapevolezza e responsabilità. È un approccio, spiegano gli studiosi, che affonda le sue radici nella neuroscienza dell’attaccamento e può davvero trasformare la relazione tra genitore e figlio.

Uno di questi gesti è ammettere che sia stato un brutto comportamento, chiedendo di parlarne. Si torna così a cercare il proprio figlio non per correggerlo, ma per ristabilire il rapporto con lui. Non serve affrontare subito la questione di quel comportamento o di quella brutta frase, ma riconoscere la rottura e offrire al giovane sicurezza emotiva.

È un modo di far sentire che anche quando tutto è difficile, il legame è importante e un figlio è importante per un genitore.

Non serve che sia un discorso lungo o preparato. Può bastare una semplice ammissione di essersi arrabbiati e di dispiacere per aver urlato, e di essere pronti a parlarne quando lui vorrà.

Sono segnali, spiegano i terapeuti, molto importanti, perché trasmettono il messaggio che l’amore che si prova per un figlio non è condizionato dalle difficoltà.

Durante l’infanzia e l’adolescenza, spiega la neuroscienza, la parte del cervello che gestisce le emozioni (il sistema limbico) si sviluppa prima di quella che regola la logica e il controllo degli impulsi (la corteccia prefrontale). Significa che bambini e ragazzi vivono le emozioni in modo molto intenso, ma non hanno ancora gli strumenti per gestirle davvero.

Se un genitore risponde con rabbia o si allontana, il cervello di un adolescente può percepire quella reazione come una minaccia, attivando una risposta di fuga o attacco. Se non c’è una ricucitura, quel momento rischia di fissarsi nella memoria come una ferita legata alla vergogna.

Quando invece il genitore torna e ristabilisce il contatto, si attiva nel figlio un senso di calma e sicurezza. Con il tempo, queste esperienze di regolazione dei comportamenti condivisa diventano capacità interne di autoregolarsi.

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Le relazioni plasmano letteralmente il cervello, spiegano i neuroscienziati. Secondo la teoria dell’attaccamento, il modo in cui un bambino sperimenta le prime relazioni crea un modello interno che influenzerà il suo modo di percepire la sicurezza nei legami futuri.

La riparazione costante dopo un conflitto costruisce un attaccamento sicuro, che è un fattore protettivo contro ansia, depressione e comportamenti disfunzionali. Senza questa riparazione, molti ragazzi finiscono per raccontarsi storie dolorose su se stessi, arrivando a pensare di essere troppo difficile da sopportare, di essere la causa della rabbia del padre o della madre, di essere uno che rovina sempre tutto.

Il semplice gesto di tornare dal figlio, di assumersi la responsabilità e offrire sicurezza, impedisce che la vergogna prenda il sopravvento. Perché la vergogna lasciata senza risposta nella più giovane età non resta confinata ad essa.

Molti adulti cresciuti senza riparazioni emotive coerenti, spiega la psicologia, portano con sé la convinzione profonda che il conflitto equivalga al rifiuto, che l’errore sia sinonimo di mancanza di valore. Questo senso di vergogna può manifestarsi con difficoltà ad aprirsi, bisogno eccessivo di compiacere gli altri, tendenza a chiudersi emotivamente, fatica nel chiedere scusa o accettare critiche, autocritica cronica o perfezionismo.

Tutti questi non sono difetti del carattere, ma strategie che la mente ha costruito per sopravvivere alla disconnessione dagli altri.

Qui piccoli atti di riparazione, quindi, non sono solo buone pratiche educative ma anche una forma di prevenzione della sofferenza mentale. Offrono ai figli un messaggio interno potente, che si può anche sbagliare ma l’amore ritorna sempre.

La fiducia e la relazione si costruiscono così, con tanti piccoli momenti di sincerità e di riavvicinamento ripetuti nel tempo.

Questi atti non cancellano semplicemente il conflitto ma insegna che le relazioni sono sicure anche quando sono imperfette, perché sbagliare non significa essere respinti. Si può sempre tornare indietro, insieme.

Quando un adulto sceglie di riparare, invece che di reagire o di permanere in un silenzio ostile o offeso, sta mostrando a un figlio cos’è l’amore che prova per lui.


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