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Cari lettori,

Costruire l’adolescenza. Tra immedesimazione e bisogni” è un libro davvero speciale, frutto del lavoro appassionato di uno psicoanalista impegnato da lungo tempo nel trattamento di pazienti giovani, e - in una dimensione prospettica più ampia - di una stagione innovativa della psicoanalisi italiana.

Da un lato, esso è in regola con tutti i requisiti canonici di un testo aggiornato e ben documentato: è in grado di presentarvi in modo chiaro le varie teorie (incluse le più recenti) in materia di adolescenza, e di accompagnarvi in modo vivo e convincente, con esempi clinici molto ricchi e spesso decisamente toccanti, nel territorio dell’esperienza terapeutica più avanzata; il che non è poco, data la specificità dell’argomento e la difficoltà di formulare un quadro così ampio e dettagliato tenendo conto delle varie tendenze della psicoanalisi internazionale contemporanea.

Ma fin qui, se vogliamo, non saremmo così distanti dalla linea comune a molti ottimi testi attuali di psicoanalisi, che è quella di una certa irreprensibilità qualitativa di apprezzabile livello.

Da un altro lato, questo libro offre molto di più, e ciò è dovuto soprattutto allo stile particolarissimo del suo autore.

Pietro Roberto Goisis non descrive segni, sintomi e sindromi con la distaccata neutralità osservativa dello psicopatologo, né si esprime con un linguaggio specialistico che formula e autoconferma, pur non facendoci mancare niente in quanto a sofisticati riferimenti teorici o nel report sui casi trattati.

Goisis ci parla in modo molto vivo e diretto di ragazzi (e di pensieri su di essi) tenendo costantemente il suo baricentro emotivo in fluttuazione tra i lettori e l’oggetto della sua riflessione, e cioè appunto i giovani adolescenti, fornendo la sensazione di volersi e potersi mettere nei panni degli uni e degli altri: di noi lettori, presumibilmente adulti abbastanza sconcertati di fronte alle tempeste e alle disconnessioni degli adolescenti disturbati e sofferenti, e di questi ultimi, anime spesso difficili, scomode e respingenti, spinose e facili da fraintendere.

L’autore riesce in questa impresa grazie al suo autentico e percepibile interesse per loro e grazie alla sua viva capacità di contatto con quella fase della vita umana di cui mostra di conservare ottima memoria per quanto lo ha riguardato personalmente (requisito fondamentale del vero psicoanalista) e verso cui non nasconde una sincera simpatia, oltre che una disponibilità tutt’altro che accademica all’esperienza condivisa in sede di trattamento.

Vi riesce, secondo me, soprattutto per la comunicazione soggettiva di cui è capace anche nel suo scrivere.

Mi riferisco a quella capacità – che paradossalmente è di pochi, nel nostro campo - di non parlare in modo troppo asettico e impersonale, incolore e ingegneristico di certi testi psicoanalitici nei quali l’autore sembrerebbe pretendere di farsi portavoce di una realtà oggettiva indiscutibile e data per sovrana: Goisis scrive “in soggettiva”, con ricco corredo di impressioni e associazioni che danno senso e sapore ai suoi pensieri, permettendoci di immaginare meglio ciò di cui ci sta parlando, proprio in virtù del fatto che il suo discorso non cade dall’alto, situandosi invece ad un’altezza emotivo-rappresentazionale molto prossima a quella dell’interlocutore immaginario.

E per fare questo con efficacia non esita a menzionare con naturalezza ricordi clinici, esperienze formative, risonanze interne dovute a letture che lo hanno ispirato o influenzato, testi poetici di tradizione letteraria “alta” ma anche parole di canzoni di intenso impatto evocativo generazionale, di volta in volta riferibili alla sua stessa adolescenza, a quella dei suoi figli o a quella dei suoi giovani pazienti; e così via.

Fatto sta che in questo modo si entra in un’atmosfera di lavoro interno più fresca, più viva e soprattutto più con-vivibile: si ha la sensazione, strada facendo, di lavorare insieme all’autore, ai suoi colleghi e ai suoi pazienti.

Sappiamo bene come chi si muove nella scrittura con tanta libertà di associazione rischi a sua volta lo sbilanciamento tipico di un eccesso di proiettività soggettiva: ci vuole una certa arte nel saper essere soggettivi senza cadere nel compiacimento troppo selfish o nel travisamento puro e semplice delle cose per un sovrappiù di proiezione.

A me sembra che Goisis vinca in pieno e in maniera originale questa scommessa, trasmettendoci una visione dell’adolescenza e dei suoi rischi patologici che non rimane affatto astratta e categoriale, ma che ci invita a compartecipare esperienzialmente, già nel leggere queste pagine, all’esplorazione di un mondo, di un modo di essere – quello dell’adolescente – che può riuscire davvero incomprensibile senza l’aiuto di un esperto; in questo caso, di un esperto “da dentro”, cioè di un esperto vero, paragonabile ad una guida alpina che quel sentiero lo ha già percorso molte volte.

Mi sono soffermato su questo aspetto stilistico perché lo ritengo davvero speciale e per me ha un’importanza enorme, non inferiore a quella dei contenuti scientifici “oggettivi”.

Ma siccome non renderei giustizia al valore di quest’opera se non ne sottolineassi anche l’aspetto scientifico, permettetemi allora di evidenziare almeno due punti di eccellenza anche da quel punto di vista.

Tra i vari, ottimi capitoli, scelgo di segnalare quello relativo al contributo delle neuroscienze nel progredire delle conoscenze riguardo all’adolescenza; ma sarebbe meglio dire: quello relativo al dialogo tra le neuroscienze e la psicoanalisi e viceversa, dato che gli scambi scientifici e le collaborazioni tra gli specialisti di questi due campi sono in costante aumento.

Goisis si muove bene su questo terreno. Il suo dialogo diretto con i ricercatori parmensi (Rizzolatti, Gallese, Sinigaglia e altri) scopritori dei “mirroring neurons”, scienziati che hanno poi sviluppato lo studio delle loro connessioni con vari aspetti del funzionamento psichico in generale e con l’interattività relazionale in particolare, lo mette in condizione di interloquire in modo molto creativo in questo campo, contribuendo con le sue osservazioni cliniche e rapportandole alle acquisizioni provenienti dall’altro versante di studio.

A mio parere, quel capitolo è un buon esempio di reciproco vantaggio nello scambio tra due scuole, e il lettore può godere di un arricchimento sostanziale, frutto di un dialogo ben condotto e – come sempre in questo testo – riportato in modo colorito e vivacemente “immaginabile”.

L’altro capitolo che mi ha colpito particolarmente è quello dedicato alla “immedesimazione”.

Certo, non è un interesse casuale, e nemmeno innocente, il mio; e Goisis lo sa bene, dato che mi cita generosamente in questa sezione.

Il fatto è che qui l’autore va dritto al cuore di uno dei problemi fondamentali della pratica psicoanalitica, che è quello dello sviluppo di una capacità di contatto interno con l’altro che non collassi nella identificazione vera e propria: quello che io sintetizzerei con la formula: “mettersi nei panni dell’altro senza “diventare” l’altro”.

Goisis mostra anche in questo capitolo un talento speciale nel fornire una esplorazione molto approfondita e sofisticata, sia dal punto di vista concettuale che dal punto di vista clinico, carrellando in modo equilibrato e raffinato tra il soggettivo e l’oggettivo, tra l’esperienziale e il teorico-descrittivo, sia nel senso dello stile (di cui ho parlato più sopra) sia nel dosaggio dei vari livelli di osservazione e di elaborazione.

Nell’ideale triangolo edipico che si crea profondamente tra l’analista, la psicoanalisi come corpus dottrinario e istituzionale, e il paziente, Goisis appare attento a non creare coppie (analista/teoria; analista/paziente) troppo ingessate ed escludenti il terzo, ma di alternare e modulare le diverse possibili configurazioni, come dovrebbe accadere in ogni nucleo famigliare sufficientemente sano.

Io ravviso in queste modalità di assetto interno, di lavoro e di scrittura, e nell’orientamento psicoanalitico che vi è connesso, i segni dell’apertura dell’autore alla contemporaneità della nostra psicoanalisi, ben impiantata sul tronco della tradizione freudiana, ma non più ancorata ad un modello sacrale esclusivo che non tollera integrazioni, ampliamenti e cambi di registro.

Mi sembra che Goisis faccia tesoro dell’eredità trasmessa dalla nostra tradizione, senza utilizzarla difensivamente come uno scudo che protegga dal nuovo, dall’ulteriore, da quello che nasce anno dopo anno nell’ampio laboratorio della nostra psicoanalisi internazionale.

E poiché la psicoanalisi italiana è ormai da tempo uno dei luoghi più fertili di questi sviluppi innovativi, sono molto lieto di dare il benvenuto a questo libro come si accoglie il nuovo nato in una comunità, augurandogli un proficuo percorso e tante occasioni di incontro creativo con lettori interessati.

Stefano Bolognini

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