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Non lo so cosa vedevo ma ricordo la paura.
La ricordo così bene.

Oggi vai al cinema con papà.
L'ha detto mamma e per me è una sventura.
Sola con papà, io? Perché, che cosa ho fatto di male?
Che mi succederà?

Presentiamo "Con voce bambina", un libro in cui si sente la voce di una bambina – ormai donna, con lo pseudonimo di Elena Dì – cresciuta nella paura di un padre violento. Un testo toccante, che espone le ferite non rimarginabili di chi è cresciuto nella minaccia della violenza.

20131203 con voce bambina

L'introduzione di Elena Buccoliero:

–  Elena, dì, racconta come può essere davvero un'infanzia "normale".
Con questa richiesta, che è poi diventata pseudonimo, l'autrice mi ha ammessa per la prima volta all'ascolto della sua voce bambina, e si sa che ricevere nell'ascolto impegna a prendersi cura. Un atteggiamento non scontato per una storia come questa.
Ci sono bambini che nascono in situazioni estreme di povertà, di sopraffazione, di violenza fisica o sessuale. L'urgenza di trarli fuori da quelle miserie è un dato certo, sebbene sul come farlo si riscontrino insufficienze e discordanze.

{xtypo_quote_right}Elena Dì è una bambina che vede non vista, come invisibili e precocemente maturi sono tanti figli della violenza assistita. Osserva i grandi senza il lusso adulto dell'interpretazione che depotenzia il sentire, ma registrando intimamente l'impatto emotivo di ciò che le si muove intorno.{/xtypo_quote_right}

Il diario di Elena Dì racconta una storia diversa. Quella di una bambina che cresce nella paura del padre, respira violenza perfino al di là degli eventi e si difende come può mettendo in ordine il mondo a partire dal manico dei coltelli che porta in tavola. Ciò che si vede non è eclatante ma il peso di una vergogna indicibile che si rinnova il giorno dopo giorno, e da cui l'unica uscita – quantomeno su un piano concreto – sembra essere la recisione netta dei legami.
Elena Dì è una bambina che vede non vista, come invisibili e precocemente maturi sono tanti figli della violenza assistita. Osserva i grandi senza il lusso adulto dell'interpretazione che depotenzia il sentire, ma registrando intimamente l'impatto emotivo di ciò che le si muove intorno.
È spuntata in un mondo che, sulla crosta, ha già disegnate le sagome dei buoni e dei cattivi e le chiede continuamente di incastrare il proprio tassello. Ma la bambina ha un occhio tutto suo per le contraddizioni annidate in ciascuno, e non riesce a chetare il desiderio di contenere tutti, di consolare e insieme di preservarsi. È questo a costringerla fuori dai contorni, dove la tensione verso l'autenticità si paga con una specie di esilio.
Questa ricerca traspare anche dalle scelte stilistiche. Il diario di Elena di abita un paesaggio simbolico che vorrebbe dire la sostanza di ciò che è stato, al di là di dettagli insignificanti come i nomi di persone e di città. La narrazione si muove in tempi cronologici diversi, giustapposti per associazione mentale e spezzati ripetutamente dall'incontro con la morte. Tuttavia, obbedendo ad una logica interna, l'intero racconto si svolge al presente, come in ogni presente ciascuno può ritrovare di sé tutto ciò che è e ciò che è stato.
Per la nostra protagonista è un "tutto" incerto: dato comune a molti spettatori di violenza, l'immersione sconta le smagliature prodotte dai meccanismi di difesa, che qui è soprattutto la rimozione dei fatti peggiori, mentre la memoria emotiva sembra sopravvissuta.
Come nel gioco della mosca cieca, la bambina ormai adulta si aggira nel profondo allungando le mani per tastare contorni di ciò che le appartiene e la costituisce, e incontra luoghi incerti, peso di correnti, strapiombi in cui desidera e teme cadere. In molti tempi si rannicchia sola o coglie – quasi sorpresa – spazi di accoglienza impensata attraverso altri simboli, dall'apprendimento all'incontro al dono.
Restano irriducibili i conti in sospeso con se stessa, il proprio darsi un luogo sereno dove stare. Ma questo è il percorso non scritto che impegna tutti gli ex bambini feriti nel profondo.


{xtypo_rounded1}Alcuni estratti dal libro:{/xtypo_rounded1}

Papà fa le cose da uomo, imbianca la casa ogni tanto, mette le piastrelle per terra.

Papà dice che le fughe delle piastrelle sono nere e mamma deve stare china tutti giorni con una lametta a grattare via lo sporco. Mamma dice che è lui che non sa mettere le piastrelle per terra, e se il lavoro fosse stato fatto per bene – ma ci voleva allora d'esser meno tirchio e chiamare uno capace – le fughe non sarebbero così larghe.

Dice così mentre si curva per terra con quella lametta tra le dita, sotto una frusta invisibile.

Mi raccomando, non dire niente fuori di quello che succede in casa.
Mamma lo ripete continuamente e allora io sto zitta.
Bisogna vergognarsi molto di quello che succede qui.

Quando papà urla, mamma si preoccupa che vicino sentano.
Papà urla bestemmie per ogni cosa, mamma immobile, spaventata, aspetta che finisca.

Guardate gli occhi, dice la zia di castello. Quando sono iniettati di sangue dovete stare zitti.
Papà entra in casa io gli spio la faccia.
Trattengo il fiato sempre, ma se ha gli occhi rossi di più.

So che ho rotto un bicchiere involontariamente, sparecchiando; papà mi investita di urla, mamma ha detto che sono solo una bambina e lui le ha dato uno schiaffo.
Anche questo so, e non lo ricordo.

Papà dice sempre che un giorno o l'altro si toglierà la cintura. Che vuol dire che ci frusta, Carro o io o tutti quanti.
Papà non si è ancora tolto la cintura non potrebbe farlo da un momento all'altro. Cerchiamo di non respirare.

Anche mamma alle volte è una bestia al macello, come me quel gionro del cinema, solo che mamma è una bestia fiera e forte. È forte per noi.

Ferma accanto al letto non so cosa va fatto in casi del genere, cosa ci si aspetta da me. Lo guardo zitta ed è uguale a prima, ma un legno vuoto, senza linfa. Un guscio d'uomo e il molto che manca verrà ancora a lungo con noi in pensieri, paure, opere e omissioni.
Fuori dalla chiesa tutti mi bacia mi abbracciano e si dispiacciono per me.
Sono strani così accorati.

È la seconda morte di papà.
Non c'era stato nessun rito, allora, nessuno accorrere di folla.
È soltanto la seconda morte, vorrei dire. Non potrà essere troppo diversa dalla prima.

Elena Dì, Con voce bambina, Edizioni La Meridiana

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