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Non ha avuto una vita facile. Arrivato in Italia da bambino, con una famiglia musulmana rigidamente osservante nella quale non si riconosce, è stato educato dal padre a suon di botte. La droga gli è sembrata una scappatoia da un conflitto troppo doloroso.

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Ma da lì la dipendenza, i furti per comprarsi l’eroina, ed è ancora un ragazzo.

Lo abbiamo messo alla prova per l’ennesimo furto aggravato. Vuol dire che se svolgerà bene il suo progetto – otto mesi in comunità terapeutica, scuola, volontariato, Ser.T., percorso psicologico… – il reato verrà cancellato.

Quando nel corso di un processo un minorenne viene messo alla prova il collegio nomina uno dei due giudici onorari a monitorare il percorso, e questa volta tocca a me. Pochi giorni prima si è allontanato dalla comunità in un momento di rabbia, il nostro colloquio incomincia da lì.

La messa alla prova sta andando bene, tranne che sono scappato dopo una brutta litigata con un altro dei ragazzi. A volte faccio le cose senza pensare. Ero convinto di aver imparato a controllarmi e invece eccomi qua. Però sono tornato, voglio tenere botta e fare le cose nel modo migliore. E poi non mi sento ancora pronto, non è il momento per me per tornare a casa, c’è ancora da fare a livello terapeutico.

L’obiettivo che io do a me stesso? Perdonarmi del tutto. Perdonarmi di questi anni buttati via. Non è stato facile, non è stato bello, solo disperazione e disastro. Dove oltre a fare danno a me stesso l’ho fatto ai miei genitori, ai miei fratelli. Per la mia cultura è una vergogna. Cultura musulmana, genitori tradizionalisti al massimo, sono uscito fuori così e per loro è stato abbastanza pesante.

Se ci penso da lucido mi dico che potevo fare qualcosa di diverso, però in quei momenti è stato inevitabile. Il posto, la gente… Non voglio dare la colpa agli altri, nessuno mi ha costretto, gli sbagli li ho fatti io. Ho bisogno di perdonarmi perché a volte non riesco a stare bene con me stesso, voglio arrivare al punto di volermi un pochino più bene.

Sì, è vero che il mio comportamento è stato anche una reazione alla mia famiglia. Io di arabo non ho niente, solo il nome e i genitori. E l’origine. Ma mi sento diverso dagli altri. Mio papà lo diceva sempre che ha sbagliato a portarci così piccoli in Italia. Sono arrivato a 5-6 anni. Lui dice che faceva meglio a mandarci a scuola nel suo paese fino alla prima media e poi portarci qui.

Le cose brutte non le auguro a nessuno, però quando succedono cosa fai? Usale. Cresci. Io ora parlo così perché ho imparato sulla mia pelle, sono domande che mi faccio e arrivo a delle conclusioni. Delle volte penso anche che il fermo della legge a me è servito. Per come ero io, dovevo sbattere la testa, ma più di una volta.

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I miei genitori non si calcolano proprio, sono rimasti insieme tutti questi anni soprattutto per noi. Dopo tanto tempo ancora mia madre non parla italiano, giusto quello che serve per andare in posta o a fare la spesa. Magari capisce ma fa fatica a rispondere. Mi rendo conto che per una donna musulmana tradizionale il matrimonio è una condizione difficile. I genitori poi, quando un figlio fa danni si incolpano a vicenda.

L’ultima volta che sono andato da loro per il fine settimana sono riuscito a chiedere una spiegazione a mio padre, gli ho chiesto perché mi ha sempre cresciuto con le botte, coi pugni. Mi ha risposto che non conosceva altro modo, lui è stato cresciuto così e con lui ha funzionato. Sono contento almeno di me stesso, io ci ho provato.

Per i miei fratelli e sorelle è stato diverso. Ero solo io quello che rispondeva, loro appena lui alzava la voce stavano zitti, avevano paura. Io non avevo paura. Uno schiaffo di qua, un pugno di là… Lui una volta mi ha detto che quanto a testardaggine gli assomigliavo, per quello con me si arrabbiava tanto. Anche lui era uno che non stava zitto.

Sì, per lui le botte gli hanno fatto bene. Al suo paese è una cosa normalissima vedere per strada un papà che picchia un figlio, nessuno ci fa caso.

Per me non è così, assolutamente, io sono per il dialogo e anche se ho commesso tanti sbagli, non sono mai stato violento. Ho sempre solo rubato per procurarmi la droga, il male l’ho sempre fatto a me stesso. Non ho mai osato toccare qualcuno, mi punivo io.

Non voglio più fuggire. Il lavoro sta andando molto bene, ho imparato in fretta. Sono in un’azienda agricola. Avevo cercato come pizzaiolo perché ho già fatto un corso ma finché sto in comunità non posso lavorare di notte. Comunque sto bene anche con i colleghi e finito il tirocinio forse ci sarà il contratto. Il lavoro è il modo migliore per avere a che fare con la vita di fuori.

La mia ragazza è italiana e va a scuola. È una brava ragazza. Ha inciso molto, emotivamente, nella mia vita, mi ha messo un po’ di più il sorriso. È arrivata in un periodo molto difficile per me e lei è riuscita a spezzare alcune mie convinzioni. Mi ripetevo che sarei rimasto sempre da solo, una ragazza non avrebbe mai calcolato uno come me così problematico, e da un momento all’altro è arrivata.

Sa quasi tutto di quello che ho fatto. Ho voluto impegnarmi, le ho detto tutto, dai 13 anni fino a adesso. Avevo paura che se ne andasse e invece è rimasta, anzi, dopo averle raccontato certe cose siamo ancora più uniti perché anche lei ha problemi di famiglia, ci siamo trovati e ci aiutiamo.

Degli amici di prima non vedo più nessuno. Sto con la mia ragazza, i suoi amici, i miei fratelli. I miei… “amici” ci scommetto che sono ancora infognati. Sto cercando di cambiare me stesso, okay che sono forte però la tentazione è brutta, preferisco stare sulla mia strada.

testo precedentemente pubblicato da Azione nonviolenta

Elena Buccoliero
Sociologa e counsellor, è la direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati e referente dell’ufficio Diritti dei minori del Comune di Ferrara. Dal 2008 al 2019 è stata giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Da molti anni aderisce al Movimento Nonviolento. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.