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Si sono compiuti da poco i Gay Pride anche nel nostro paese, un evento le cui radici risalgono all’anno successivo alla rivolta di Stonewall, avvenuta il 28 giugno 1969. Quel giorno, la polizia fece irruzione allo Stonewall Inn, un bar gay nel Greenwich Village. Queste retate erano frequenti nei locali simili di New York, ma quella notte i clienti, stanchi di anni di persecuzioni, decisero che era arrivato il momento di dire basta. Reagirono, costringendo gli agenti a rifugiarsi all’interno dello stesso bar che stavano tentando di sgomberare.

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Sono passati più decenni da allora ma oggi, molti dei diritti conquistati dalle persone non eterosessuali sono ancora sotto attacco in molti paesi, compreso il nostro. Gruppi religiosi e forze politiche di destra stanno cercando di smantellare questi progressi in molte società che si stavano invece aprendo in questa direzione. Ultimo e clamoroso il caso ungherese, dove le autorità hanno vietato la manifestazione, la quale si è però tenuta lo stesso con grande partecipazione.

Prendendo in considerazione i giovani adolescenti, questa situazione dichiarata di intolleranza e “aggressione”, al di là dei momenti pubblici e collettivi di espressione delle diversità, non è difficile immaginare per loro e per le loro famiglie pesanti conseguenze psicologiche e sociali.

Coloro che lavorano a contatto con questi giovani possono osservare con evidenza le conseguenze fisiche ed emotive della negazione di una realtà fondamentale, il fatto che l’identità sessuale e di genere umana sia ampia e complessa.

Forzare le persone a adattarsi a visioni semplicistiche e rigide porta a isolamento, sfruttamento, violenza e, molto spesso, all’autolesionismo e anche alla morte. Quando qualcuno non rientra negli schemi culturalmente e politicamente accettati di “maschio” e “femmina”, viene emarginato, e questa esclusione ha effetti molto gravi.

Numerosi studi lo confermano, documentando che questi adolescenti hanno quasi cinque volte più probabilità di tentare il suicidio rispetto ai loro coetanei eterosessuali. Pensieri suicidari sono quasi tre volte più frequenti. Ogni episodio di vittimizzazione—fisica, verbale o psicologica—aumenta in media di 2,5 volte il rischio di comportamenti autolesionistici. Tra le persone transgender adulte, il 40% ha tentato il suicidio, e la stragrande maggioranza lo ha fatto prima dei 25 anni.

Secondo gli psicologi esperti di questo tema, un dato in particolare merita attenzione: gli adolescenti Lgbtq provenienti da famiglie fortemente respingenti hanno una probabilità molto volte maggiore di tentare il suicidio o di frasi del male rispetto a chi riceve accettazione o un rifiuto lieve.

È una realtà difficile ma inequivocabile. Online la questione è stata da molti posta con una domanda diretta e dolorosa: preferisci un figlio non eterosessuale o un figlio morto?

Le organizzazioni che promuovono apertura e accettazione lo ripetono da sempre: il sostegno familiare è la protezione più efficace contro le conseguenze fisiche e mentali negative di quello che un ragazzo può vivere a livello sociale.

Eppure accettare un figlio Lgbtq può mettere in crisi l’intera famiglia, costretta a uscire dal proprio “segreto” davanti ad amici, parenti e vicini. Sostenere un figlio transgender, ad esempio, implica scegliere se accompagnarlo nel suo percorso o abbandonarlo a un mondo esterno ostile e pericoloso.

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Nel frattempo, a livello politico e sociale sembra che anche il nostro Paese stia cercando di nascondere e mettere a tacere la questione, reprimendo una crescente accettazione delle identità di genere come se fosse possibile annullare una consapevolezza ormai acquisita.

In 61 Paesi del mondo ancora oggi l’omosessualità è ancora un crimine—punita persino con la morte in alcuni di essi.

I giovani non vengono “indotti” a essere Lgbtq da movimenti culturali o sociali. Non è una questione di ideologia, né di propaganda: è una realtà esistenziale.

La maggior parte delle persone Lgbtq ha percepito la propria identità—che si tratti di attrazione per lo stesso sesso o disagio verso il proprio genere—già nell’infanzia. È quello che molti psicologi e anche molti genitori hanno visto nella loro esperienza.

Spetta ai genitori trovare la forza e la compassione per ascoltare i loro figli quando iniziano a esplorare la loro identità, sostengono quegli psicologi.

Serve un dialogo onesto, aperto, privo di giudizio. Solo così si può evitare che i figli finiscano per vivere una vita di emarginazione, dolore o anche peggio, a partire dal loro stesso ambiente familiare.

Per evitare questo, occorre ascoltarli davvero, evitando di umiliarli e sostenendoli nell’affermare quello che sono. Quando si parla con loro, è di grande sostegno ripetere le loro parole per dimostrare che li si sta ascoltando, incoraggiandoli a raccontare quello che sentono.

Non è facile, per molti genitori, ma si deve riconoscere e accettare l’esperienza e il vissuto dei giovani, anche quando il discorso tocca temi sessuali.

Solo così si potrà costruire un futuro dove nessun figlio debba scegliere tra la propria identità e la propria sopravvivenza. E vivere una vita di vergogna, di negazione e di sofferenza interiore.


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