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Ricordo bene il giorno che ci siamo conosciuti, nella vecchia sede della comunità femminile che ti ospitava da poco più di un anno.

20150203 racconto D Luca

Quel tuo sguardo che rapidamente si abbassa ma non nasconde fierezza e orgoglio; quel tuo ridere nervoso, un po' sempre sulla difensiva; quel tuo parlare chiaro, netto, con la voce rotta dall’emozione, sempre un po' precisina e puntigliosa, sempre a scusarti. Allora il problema più grosso era: ma come faccio con un maschio a parlare di mestruazioni?! E neanche sapevi che, invece, avevi di fronte quello che, disperata perché non avevi i soldi per comprarti i farmaci che avevi finito e che dovevi prendere ogni sera prima di andare a letto, ti avrebbe un giorno risposto “arrangiati”!

Avevi fatto da poco i 18 anni e sembravi venire da anni di comunità, con quel tuo fare – diciamolo - da prima della classe, da senior ormai formata nella scuola del sociale che ne ha viste tante e la sa lunga su come ci si comporta con gli educatori. Sempre a mostrare la parte migliore e ad anticipate il giudizio, quasi temendo di essere scoperti nelle proprie incrinature segrete, come le rughe di un volto che vanno nascoste perché si pensa non siano belle.

Non era vero. La comunità l’avevi attraversata solo una volta, e per poco più di un anno. Certo, tu ti eri tuffata a capofitto in questa ancora di salvezza, quasi chiudendo gli occhi e senza troppo pensarci. Sì, hai incontrato persone toste, che subito hanno capito e hanno messo in campo tutto quello che avevano... e forse anche di più: una di queste si è quasi inventata un servizio nuovo per garantirti un futuro e qualcun altro gli è pure andato dietro! Ma quello che ti aveva formata veramente era stata la durezza della vita, come molti ragazzi che incontriamo ogni giorno. Per te quella durezza aveva il volto del tradimento. Il tradimento di chi dovrebbe difendere e invece attacca, invade, devasta. Fa razzia di tutto, incurante dell’altro, del cucciolo che a lui si rivolge sicuro di ricevere protezione. E il tradimento più grosso di lei, che potrebbe intervenire, meglio, dovrebbe intervenire, e non lo fa. Guarda attonita, paralizzata e decide che non ce la farebbe a reggere l’urto di un uragano che si porterebbe via tutto. E allora non dice niente e, disperata, fa quello che non dovrebbe mai fare: non ci crede, non ti crede. Pensa che non sia vero. Non può credere, e invece di rinchiudersi nella pazzia che tutto spiegherebbe, silenziosamente punta il dito e rinuncia a dire quella parola che ti salverebbe, e che la farebbe soccombere, facendo crollare tutto. Difendendo così chissà cosa...

Il tradimento di tutti gli altri, che ancora oggi ti chiedono di ritrattare, che se lo fai ti offrono il loro perdono malato, dimenticano e archiviano tutto. Se tolgo la giacchetta del professionista non posso che dire “bastardi”. Se invece la tengo non ho parole, non so cosa dire. E le teorie che tutto spiegano mi danno solo fastidio. E allora vedo le tue lacrime, copiose, dense, simpatiche. Sì simpatiche, perché tu ti vergogni anche di quelle, che, fetenti! scappano dal tuo controllo. E lo fai ridendo e io non so far altro che abbracciarti con un sorriso. E penso: “ma come ha fatto”?! Ma come si fa, come si fa a reggere tutto questo? E andare avanti, incontro alla vita che non sconta niente, che non considera le sfighe pregresse come un prezzo già pagato ma che continua ad estrarre a sorte. E, come se niente fosse, come un accanimento che non lascia scampo, pesca la “luna nera”. Quel giorno, quando quella luce improvvisa e inaspettata che aveva fatto capolino nella tua vita improvvisamente si spegne, lasciando tutti sgomenti, senza un perché. Quel cuore di ragazzo che smette di battere, Dio Santo, proprio il cuore...

Hai voglia a dare senso alle cose che la realtà ci offre. Ma per piacere! E adesso dove la trovi la voglia di andare avanti? Ma perché poi ci dovrebbe essere? E invece vai avanti, chiedi aiuto al mondo, incurante che fino a poco prima il tuo mondo ti ha tradito. In una visione folle della vita che fa dire: mica sarà tutto così? E allora, testa bassa, orgoglio a mille, corazza inossidabile a proteggere un’anima lacerata e in fin di vita. Ti spinge il sapere che tu hai ragione, e che, anche se ancora ti vergogni di vergognarti, e quindi abbassi lo sguardo, tu hai diritto alla tua vita, ad essere felice un giorno, oltre le “lune nere”, con o senza di loro. Anzi, meglio senza. Che fatica poterselo dire, che fatica provare mille volte a recuperare il recuperabile, in quei silenzi dove le uniche parole possibili non vengono mai dette, per poi arrivare sempre lì, a quel nodo che non si può sciogliere, e allora... fermarsi. Ogni volta domandandosi cosa fare, ogni volta sperare che qualcuno faccia il primo passo, che qualcuno chieda scusa, o semplicemente che posi uno sguardo di compassione, di perdono. E invece no. Allora sai cosa ti dico? Io vado avanti lo stesso: non posso perdere altro tempo. Piangendo, lo so. Disperandosi, chiedendosi mille volte perché. E mai riuscendo a trovare una risposta. E allora la scuola, la più brava di tutte, e poi il tirocinio, che diventa subito lavoro, e poi un altro lavoro, perché questa volta sia tutto tuo, che trovi in tre giorni alla faccia della crisi economica, e poi il trasferimento a Milano, per ripartire davvero, giovane donna con la vita davanti e con altri ragazzi come te a condividere un pezzo di normalità, forse di spensieratezza. E, perché no, anche l’impegno, tra voglia e dovere a raccontare al mondo e ai più piccoli quello che è stato e che forse li aspetterà. A raccontare che ci si può fidare anche d'uno sconosciuto, che ci si può fidare anche se non c’è nessuna garanzia, che ci si può fidare anche se fino a ieri fidarsi è stato un errore. Che ci si può fidare addirittura anche di un maschio (che non parla di mestruazioni e non ti aiuta quando hai bisogno di farmaci!), anche se è stato il corto circuito più grosso della tua vita. Inevitabile.

20150206 racconto 2

E perché ci si può fidare? Come fai a convincerli? Dimmelo tu D., io non lo so.

Io so solo che quando ti ho visto l’altro giorno a parlare della tua vita davanti a centinaia di persone (assessori compresi), con quella tua voce quasi in falsetto, rotta dall’emozione, ma fiera, sicura di quello che stavi dicendo, orgogliosa delle tue fragilità, del tuo mostrarle a tutti abbassando lo sguardo così che non ti si veda dentro, preparata, capace, grata di quello che hai ricevuto, mai sicura di te, sempre attanagliata dalla paura di sbagliare, con la vergogna dietro l’angolo...

Io so solo che ho provato un orgoglio infinito, e che me ne sono appropriato, fregandomene che ho preso quello che sarebbe naturalmente spettato ad altri e che invece hanno perso per sempre. Se sapessero cosa hanno perso per sempre...

L’orgoglio di averti vista crescere, stando sempre un passo indietro, senza mai fare troppi complimenti, sempre a guardare quello che manca, spesso dicendoti arrangiati, ma in cuor mio piangendo con te, tifando disperatamente per te, sapendo – sempre - che ce l’avresti fatta, ma seguendoti da distante, quasi spiandoti, come a non esserci, con la paura di far rumore ed essere scoperti.

Come l’altro giorno quando, a tutti, hai raccontato te stessa e il come si fa. Anche l’altro giorno c’ero, tu lo sai, nascosto da qualche parte. Che emozione che è stata...

Che emozione si prova quando il veder crescere va al di là della necessità di essere presenti. Quando si può lasciare andare. Quando è l’assenza quella che conta, il non esserci proprio perché l’altro, adesso, può camminare con le sue gambe. Che bello non esserci stato fisicamente ma essere stato presente in ogni tua parola. Tu sapevi che io c’ero ma non avevi più bisogno che fossi li. Anzi non dovevo esserci. E che brividi nel sentire gli altri quando mi hanno raccontato. E io so quello che hai detto, non ho bisogno che nessuno me lo dica.

Cosa si perdono gli adulti che non riescono mai a fare a meno della propria presenza, che pensano di accompagnare sempre, di presidiare tutto. E che non sanno che la fiducia è nell’assenza. E cosa si perdono i ragazzi quando l’adulto è sempre lì, a controllare ogni passo, a suggerire ogni movimento, a correggere ogni inciampo. E invece che bello che è parlare in pubblico pensando che le persone più importanti possono anche non esserci, perché tanto ci sono lo stesso.

E che fatica, cara D. che si fa a non esserci. La fatica ogni volta di sapere che è la cosa giusta da fare ma, al tempo stesso, dubitarne in ogni momento. In quella piega strettissima, dove il dubbio insinua le sue domande che sanno di colpa e di perdita, ecco lì, nel non rispondere, nel resistere alle ondate dell’esitazione, lì ci sta la cura. L’ultima cura possibile, quella che dura per sempre, quella che toglie l’ancora della dipendenza e permette alla nave di salpare e lasciare il porto. Un porto che ci sarà sempre, e tu lo sai, se mai si avrà bisogno di un attracco, se mai il mare diventerà troppo grosso e impossibile da navigare. Poi tanto sappiamo che si calmerà di nuovo, e si potrà riprendere il viaggio.

Un giorno, questa dolce e malinconica fatica la proverai anche tu. È un brivido di commozione, rimpianto, tenerezza. Ma anche orgoglio, serenità, piacere. Il piacere di vedere che è possibile e che il motivo per cui vale la pena di provare a fidarsi è proprio questo: che è possibile farlo, è lì, gratis! Non sempre è tradimento, non può essere sempre così. L’eccezione che congela la regola non la sostituisce, perché la regola che il grande aiuta il più piccolo è universale, scritta dentro di noi. Ogni volta è una storia nuova, si riparte da zero, ogni volta può essere quella giusta. Ogni volta è possibile fidarsi, perché se riesce è una figata!

Ma quanto hai dovuto saper perdere la ragione per crederci davvero! E che paura solo il pensarlo.

Forse non è gratis, forse il prezzo è proprio la follia e la paura...


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