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L’unica cosa certa fino a quel momento è che Stefano era francamente delirante e totalmente fuori dalla realtà. E quindi... come ho fatto a dare per scontato che fosse vero?! Come ho fatto a crederci???
Cosa vuol dire per lui “Stoccolma”?!

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In un secondo disinnesco quel pensiero malato che sta paralizzando la mia testa: faccio finta di niente e tiro dritto. Chiamo ancora Stefano. Il telefono è staccato. Io non posso credere che siamo tutt’e due nella stazione ferroviaria di Stoccolma a 2089km da Milano e non riusciamo a trovarci. Paola, in agitazione, mi chiama: “allora, l’hai trovato?!”

“No Paola, non ancora...”

Non faccio a tempo a dirlo che sento urlare il mio nome. Stefano sta uscendo da una delle rampe delle scale che porta ai binari.

Stralunato, raggiante, sporco da far schifo...

Ci corriamo incontro. Tutt’e due sfiniti. I suoi sono gli occhi azzurri di sempre. Bellissimi nel guardarti sempre dritto negli occhi. Anche il suo sorriso è quello che riconoscerei in mezzo a mille persone. Un abbraccio interminabile. Una commozione indicibile. Un’emozione come di casa ritrovata, mai più provata.

Una follia che non andava fatta.

La sensazione di aver ripreso, dopo una corsa a perdifiato e un tuffo acrobatico fatto all’ultimo istante possibile, un palloncino sfuggito dalle mani di un bambino e ormai destinato a perdersi nel cielo.

Capisco ora che il vero senso di tutto sia stato l’averlo fatto, aver sfidato la ragione, aver creato una magia. Aver dato valore all’impossibile, trasformando in realtà un significato simbolico, e averlo fatto diventare regalo.


la tensione si placa regalando un sonno profondissimo,
che dà l’illusione di una pace ritrovata


Come dei ladri scappiamo in macchina da Paola che ci accoglie con l’entusiasmo sobrio ma commosso che la contraddistingue. E con le sue carezze dolci da mamma adulta che non teme fraintendimenti. Poi, di corsa, ci rimettiamo subito in viaggio. Siamo partiti da Milano venerdì 29 aprile alle 20:00 e ripartiamo da Stoccolma alle 24:00 del 30 aprile. Abbiamo ancora un giorno di tempo, sabato 1º Maggio, per arrivare a Milano: lunedì 2 alle 9:00 Paola deve essere per forza al consolato Russo per un appuntamento fissato da mesi, fondamentale per far avere a Sergej i suoi documenti, ed evitargli un rimpatrio forzato dopo 6 anni di adozione fallita in Italia e una famiglia in Russia che non esiste più.

Il ritorno, iniziato all’insegna di fetidi insopportabili odori, mele avvelenate di proposito dalla madre, Dio che regala l’immortalità a chiunque lo sevizi, ad un certo punto, finalmente, si trasforma in un viaggio verso casa, e la tensione si placa regalando un sonno profondissimo, che dà l’illusione di una pace ritrovata.

Io e Paola iniziamo a fare i calcoli e ci rendiamo conto che, se va bene, arriviamo alle 2/3 di notte del 1º Maggio. Un po' tirati e a rischio imprevisti, a quel punto non più recuperabili. E con 54 ore di macchina alle spalle...

Interpelliamo il nostro “Campo Base” a Milano che, in poco tempo, ci suggerisce un treno che parte da Amburgo alle 11:04 e arriva a mezzanotte a Milano. Paola guadagnerebbe qualche ora potendo anche riposarsi un po' durante il viaggio.

Stoccolma-Amburgo sono 980km e ci si può arrivare in 10 ore. Dovremmo farcela...

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Il viaggio di ritorno, a differenza dell’entusiasmo adrenalinico di quello d’andata, è sotto gli effetti di una energica onnipotenza a portata di mano, un presente che si riprende la scena e comanda su ogni progettualità futura e ogni interpretazione di un passato che non ci riguarda più. Con la folle spensieratezza di chi crede di poter fare tutto e che niente sia impossibile - figuriamoci prendere al volo un treno ad Amburgo! – andiamo sparati verso questa nuova impresa.

E infatti sarà così. E non basterà neanche l’improvvisa scomparsa delle aree di servizio a 50km da Amburgo, con la Opel in riserva da mezz’ora, che sfida le informazioni presenti nel libretto della macchina, a fermarci. Per altro non avremmo neanche avuto il tempo per fare benzina. Infatti arriviamo alla stazione centrale di Amburgo alle 10:55, nove minuti prima della partenza del treno. E senza biglietto. E a quei tempi non esistevano i meravigliosi smartphone tuttofare di oggi...

Io corro in biglietteria mentre Paola cerca il binario del treno, con l’intenzione di impedirne la partenza. Prego che non ci sia coda allo sportello e benedico la imperturbabile organizzazione tedesca quando vedo che sono il primo della fila! Prendo il biglietto al volo e di corsa vado al binario. Paola è già sul treno (il piano B era: tu sali, poi fai l’italiana e qualcosa ti inventi!), e mi chiama sporgendosi dal finestrino aperto. Faccio appena in tempo ad allungarle il biglietto e il treno parte.

Vedo la sua carrozza andare via lenta e Paola che mi guarda. Per un lunghissimo attimo ci fissiamo esterrefatti, con le lacrime agli occhi. È andata anche questa!, pensiamo. Come avrei fatto senza di te?, penso.

E adesso? Come faccio senza Paola e con un matto perso, da gestire da solo?!

Quell’altro, intanto, è lì che continua a litigare con il Diavolo travestito da Dio e la sua mamma che lo vuole avvelenare. Non so neanche se sa dove si trovi. Mi chiede di andare dal McDonald’s che abbiamo visto sul piazzale della stazione. Sì, penso, ne ho proprio voglia anch’io!

Ci sediamo in un tavolino all’aperto, e mi godo il primo momento in cui il viaggio trova un attimo di sana leggerezza, fingendo di essere vacanza. Non è più l’urgenza al centro, e adesso, forse, ritorna la vita normale. Spiego a Stefano dove siamo, non soltanto da un punto di vista geografico. Gli dico che si stava perdendo, ma non gli dico che, in realtà, quello è il segno che si è già perso. Solo un’inimmaginabile tempo supplementare non previsto dalle regole del gioco, ha permesso di portarsi a casa la pelle. Cerco di recuperare calma, soprattutto con me stesso, di cambiare marcia e di smetterla di correre. Stefano però è in un altro luogo. Essere a Milano, Stoccolma o Amburgo, non cambia molto. Oppure Amsterdam. “Luca. Ma qui non siamo vicini ad Amsterdam”? “Dai, ci andiamo”?! Mi guarda con la sua faccia da furbo che non sa fare doppi giochi, e con gli occhi che sprizzano la gioia di un bimbo che chiede il dono più bello a Babbo Natale: “dai, lì si può fumare nei coffee shop... è legale”!


Stefano mi saluta con quel suo eterno sorriso negli occhi. Quello che gli viene quando, nel ringraziare,
chiede scusa come chi ha sbagliato, sapendo di averla combinata grossa


Mi viene una botta di stanchezza e realizzo che siamo ancora a 1.100km da Milano, che non dormo in un letto, non mangio come si deve e non mi faccio una doccia da quasi tre giorni. Se va bene ci mettiamo 12/14 ore, il che significa che arriviamo alle 3 di mattina e senza il mio primo pilota...

E allora sbotto. Tratto il delirio come fosse un nemico da prendere a male parole, fregandomene di quello che può capire. Urlo perché dopo 35 ore di viaggio ininterrotto devo farlo. Basta il fioretto del linguaggio dell’operatore sociale! Adesso ha bisogno di un po' di vere, scorrette, feroci randellate da sani di mente, che non vanno per il sottile e non servono per farsi capire ma per sfogarsi.

L’ultima parte del viaggio è un lento rientro alla normalità. Finalmente l’entusiasmo diminuisce, i poteri “paranormali” si affievoliscono, la cruda realtà ritorna a fare capolino, ricominciando noiosamente a mettere qualche puntino su alcuni dettagli, fino a quel momento, lasciati un po' in disparte. E che molto in fretta diventeranno macigni...

Ricordo una grande stanchezza, l’insofferenza per i deliri di Stefano ormai senza freni, la voglia di vedere Milano, quasi come temendo che non ce l’avrei mai fatta. Poi ricordo l’avvicinamento alla frontiera della Svizzera, una sensazione di casa, di essere ormai arrivato. Ma anche un sonno che adesso iniziava a presentare conti salatissimi, e gli occhi che mi si chiudevano mentre superavo altre macchine in corsia di sorpasso. Sono le 3 di mattina, devo fare benzina e vedo un’area di Servizio. Ci entro e faccio il pieno. L’ultimo di non so quanti pieni fatti in 50 ore di viaggio. Chiudo il tappo della benzina, pago e torno in macchina. Mi incoraggio: manca poco, dai Luca! Ancora un piccolo sforzo, poi è fatta. Non vedo l’ora!

Invece capisco che non ce la faccio più. Non c'è più fretta, non ci aspetta nessuno, non è necessario. Nessuna realtà migliore di quella di Stoccolma aspetta Stefano. Lo sto riportando da dove è scappato. Ha dovuto scompensarsi per trovare la forza di prendere un biglietto di sola andata. E io adesso gli ho azzerato tutto, rimettendo le cose come non dovevano essere, inventando un finale sbagliato. Finalmente però anch’io inizio a difendermi da questi pensieri mortiferi, che non hanno via d’uscita. Salgo in macchina, guardo Stefano, che, anche se è in un altro pianeta, come sempre mi sorride, e si sente al sicuro. Gli dico: dormiamo adesso. Ripartiamo quando ci saremo svegliati, domani mattina.

E sprofondiamo in un lunghissimo sonno di tre ore.

Ripartiamo e dopo un altro paio di ore di autostrada, passate quasi in totale silenzio, alle 8 della mattina, finalmente, lo lascio sotto casa sua in via Palmieri. Non ci credo quasi. Stefano mi saluta con quel suo eterno sorriso negli occhi. Quello che gli viene quando, nel ringraziare, chiede scusa come chi ha sbagliato, sapendo di averla combinata grossa. Si vergogna, ma gode, di quella cura ricevuta. Come non ne avesse diritto. La vorrebbe sempre e non gli basterebbe mai, perché è solo un inseguire quello che non c'è mai stato. E sa che, sorridendo, tutti questi sentimenti verranno smascherati.

Ci salutiamo come un giorno qualsiasi, con la sua solita frase: “Luca, quando ci vediamo”?

Io gli rispondo “ci sentiamo presto. Riposati adesso. È stato un viaggio lungo...”

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L’ho appena riportato nella casa dove non doveva tornare. So che adesso il vero viaggio sarà capire se c’è un luogo nel mondo dove possa stare. La fuga dalla realtà era l’ultima soluzione da utilizzare, non la prima. Ora dobbiamo provare altre strade, che forse non esistono.

Mi ha mostrato tutto di sé, quel ragazzo. Prima gli indicibili segreti del passato, che erano sotto gli occhi di tutti quelli che solo avessero avuto il coraggio di vedere. E che non c’era bisogno di confessare, come lui ha fatto una notte di inverno a Salice Terme, in uno dei suoi improbabili ed originali esili da mondo. Poi i danni provocati da quei segreti, dove chi prova affetto si trasforma in carnefice. E se si rifiuta vuol dire che è pericoloso, come in un incubo dove i ruoli vengono invertiti, in un gioco così assurdo da risultare verosimile. Danni così gravi da far quasi credere che fossi io quello che stava deragliando nel contatto con lui. E infine mi ha mostrato, con folle lucidità, la rotta che, quella barca alla deriva, avrebbe inevitabilmente preso. Un mare aperto pieno di tempeste violente e cieli neri, che non lasciavano spazio alla speranza. Anzi, che promettevano un unico, terribile approdo. Anche quello già scritto, bastava solo volerlo vedere.

Ora che ci sei arrivato io sono senza parole, senza pensieri, senza un luogo dove mettere il dolore.

“Ma quando non ci sarò più, le nostre anime si ritroveranno?”, mi chiedevi durante uno dei tuoi primi ricoveri al Grossoni.

E qui la professione si ferma. Prima finge di saper spiegare, dare senso, comprendere. Poi si arrende: prende atto che non ce la fa. E a quel punto la vita si riappropria della scena, senza teorie, senza progetti, senza intenzionalità. Senza la possibilità di farti capire niente. Solo di viverla. Con tutte le sue spettacolari e terrificanti possibilità.

O di rinunciare a viverla. Lasciando solo un vuoto, inconsolabile silenzio.


Qui la prima parte


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