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Quando metto giù il telefono, il 26 dicembre 2015 alle 19:13, il tempo, per un interminabile secondo, si ferma.
Il mondo si ferma, sospeso in un vuoto definitivo, che non sarà più possibile riempire.

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Decido di chiamare Paola, collega, amica, complice di quel folle viaggio contro un destino già scritto.

Allora pensavamo di avercela fatta.

La chiamo e Paola sa già quello che le devo dire.

E allora ripenso a quella telefonata di dieci anni prima. Quella telefonata così inaspettata e sperata. Così miracolosa e spiazzante.

“Ciao Luca, sono Stefano, come va”?

Sempre ti presenti dicendo chi sei, quando mi chiami al telefono. Con quella cantilena e quella voce roca da chi non vuole abbandonare l’adolescenza che già al “ciao” è talmente inconfondibile da rendere le altre parole assolutamente inutili. Eppure tutte le volte avevi bisogno di dire chi eri. Come facevi a non pensare che ti avrei riconosciuto tra un milione di persone? Certo che sei Stefano, lo so!

È mercoledì 27 aprile 2005. Da un po' di tempo si erano perse le sue tracce. Il ritorno dalla mamma, brusco, inopportuno, violento, dettato dalle urgenze dei bilanci piuttosto che dal raggiungimento di un equilibrio possibile, aveva avuto l’effetto di una doccia fredda che toglie il fiato e fa precipitare il tempo indietro di dieci anni, all’attimo in cui, finalmente, quel ragazzino dagli occhi azzurri che ti guarda sempre come un cerbiatto che si è perso, è entrato in una comunità che lo potesse proteggere da adulti assediati da droghe, deliri, perversioni che ne hanno minato fatalmente, e per sempre, le fondamenta.


dopo dieci anni di impossibili tentativi di ricostruire
un futuro anche solo pensabile


E dopo dieci anni di impossibili tentativi di ricostruire un futuro anche solo pensabile ecco il ritorno ancora in quella gabbia di matti, dove il frigorifero vuoto campeggia in mezzo alla sala, e l’armadio, inopportunamente messo di traverso all’entrata della camera da letto spoglia, ne ostruisce l’accesso. E dove il caffè viene servito senza soluzione di continuità, da una tazzina all’altra, segnando, con una riga nera sulla tovaglia, il suo tragitto.

E qualche mese dopo quel rientro inimmaginabile, che sa di pugnalata alla schiena, la scomparsa. Telefoni spenti, appuntamenti saltati, nessun avvistamento in casa o in cortile. Silenzio assoluto. Come saprò dopo, la sua casa era diventata il parco Ravizza, non distante dal quartiere Stadera dove viveva.

Fino a mercoledì 27 aprile 2005.

“Ciao Luca, sono Stefano, come va”?

Attimo di silenzio.

“Ciao Stefano... bene, grazie. Dove sei”?!

“In giro, Luca: ho deciso di andarmene via. Qui c’è gente che ti guarda dentro gli occhi e ti ruba l’anima”...

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Ahia, mi dico. Quelle poche inutili gocce di benzodiazepine che faticosamente e simbolicamente eravamo riusciti ad introdurre nella sua personalissima lista di droghe, non le sta già più prendendo. Ricordo ancora bene quel viaggio in macchina di notte, in giro per Milano, dopo che, disperato, mi aveva chiamato chiedendomi di andarlo a prendere perché non poteva uscire di casa. Fuori, tutti ce l’avevano con lui. No, non lo volevano ammazzare. Gli volevano rubare l’anima per venderla al diavolo. Allora sono corso da lui, sapendo che la macchina, la mia vecchia uno bordeaux, per lui era il luogo più sicuro al mondo da quando, la prima volta che ci era salito, lo avevo subito tranquillizzato dicendogli che, ovunque c’ero io, era come se fossimo in ufficio. Protetti.

Quella volta però avevo capito che il livello di guardia era stato superato.

“Anch’io sono pericoloso, Stefano, vero”?

“Sì... in alcuni momenti sì”.

“Eppure sai che non ti farei mai del male”.

“Sì, lo so”...

Un’ora di notte in giro per le strade di Milano con l’attenzione di non allontanarsi troppo dalla zona dell’ospedale San Carlo dove, avendo lavorato all’interno dell’SPDC, sapevo di poter contare su un accesso rapido supportato da buone credenziali, sempre necessarie nel complicato e diffidente mondo della psichiatria.

Quello era stato il battesimo, la perdita dell’innocenza, la consacrazione che il pensiero, quando deraglia fa perdere il controllo. E che le canne avevano, purtroppo, ormai esaurito il loro compito primario, superato dall’ondata di piena scatenata da una mente assediata dai demoni e dalle violenze del passato. Da allora gli psicofarmaci non ti hanno più abbandonato, con tutti i loro odiosi effetti collaterali, più evidenti dei loro benefici. E il loro innegabile limite di offrirti una insopportabile vita dimezzata. E a me rimane la disperante consapevolezza di aver fatto la cosa giusta, anche se tu l’hai sempre rifiutata, quasi rinfacciandomela, ma provando ad accettarla. Sapevo che il punto di arrivo sarebbe stata un’invalidità del 100% con accompagnamento e iscrizione alle liste protette, con tanto di diagnosi, a seconda dei gusti, di border, di psicotico o, meglio ancora, di schizoaffettivo... Tutte etichette che, alla fine, sono risultate strette, fino alla scoperta che eri troppo “tossico” per la psichiatria. Così ti hanno inviato agli esperti della doppia diagnosi, dove invece hanno detto che eri troppo matto per loro. E quindi ti hanno rispedito al mittente...


sapendo che il filo che mi sta collegando a quella voce roca
è ridotto a un niente, e si può spezzare senza neanche volerlo


Per me, invece, sei sempre e solo stato Stefano.

E lo eri ancora di più quel 27 aprile 2005.

La tua risposta, “ti richiamo dopo Luca, adesso ho il cellulare scarico”, dava perfettamente il senso della totale precarietà di contatto nella quale ti muovevi.

Ero appena uscito dalla seduta di supervisione mensile del servizio dove Stefano era stato ospitato fino a pochi mesi prima.

E appena metto piede a casa, nel tardo pomeriggio di una bella giornata di primavera, ecco che, davvero, Stefano richiama. Ricordo ancora la telefonata fatta sul terrazzo, per stare all’aria aperta, guardare fuori e non avere muri attorno, sapendo che il filo che mi sta collegando a quella voce roca è ridotto a un niente, e si può spezzare senza neanche volerlo.

“Dove sei Stefano”?

“A Stoccolma”.

In un secondo penso a via Stoccolma, piazza Stoccolma, largo Stoccolma... Non mi viene in mente nessuna strada di Milano con questo nome. Però, mi dico, mica posso conoscere tutte le vie di Milano?!

Poi i dubbi svaniscono in un attimo. “Qui hanno tutti gli occhi azzurri, Luca. Però non ti rubano l’anima”!

E un secondo dopo: “ma, Luca... non si capisce niente di quello che dicono”!

“... ascolta Stefano... mi stai dicendo che sei a Stoccolma... in Svezia”?!

“Non so. Sono andato in un’agenzia viaggi e, con tutti i soldi che mi erano rimasti, ho preso un aereo per Stoccolma. Avevo visto sui depliant che tutti avevano gli occhi azzurri”...

Pausa di silenzio. “Luca, io voglio tornare indietro”...

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In cinque minuti realizzo che Stefano è volato a Stoccolma, con un biglietto di sola andata, senza un centesimo, in preda ai fumi della mente, in stazione centrale a chiedere l’elemosina con un cartello scritto in italiano, e non vede l’ora di tornare a casa in fretta...

Gli dico di andare dalla polizia, di spiegare la situazione, di farsi imbarcare nel primo aereo per l’Italia, che in qualche modo lo avremmo pagato.

Più cerco di trovare una soluzione possibile, a 2083 chilometri di distanza, e più capisco che Stefano è da un’altra parte. So che non mi segue, che non può seguirmi. Non capisce il significato delle parole che uso, lui ha un suo personalissimo vocabolario, dove confonde il simbolico con il letterale. Mi viene alla mente quando aveva “spuntato” le ali del suo pappagallino verde, per evitare che, volandosene via, lo abbandonasse...

E infatti, come se il problema non ci fosse, e con la purezza e la tenerezza che ha sempre contraddistinto le sue pretese di bambino di tre anni mi implora: “Luca, vieni a prendermi”!

Alle 17:30 del 27 aprile 2005.

Non ho neanche bisogno di ragionarci un secondo per capire che, ovviamente, non mi sarà possibile andare a Stoccolma.

...e quindi?!

Mi dico che si arrangerà. Che troverà una soluzione. Che chiamerò il consolato o la polizia per risolvere la situazione... Che lo intercetterà e lo curerà l’efficientissima psichiatria svedese.

Azzardo anche, con me stesso, un tristissimo “se l’è cercata lui” estrema difesa, tipica di chi non ha soluzioni al problema e non vuole soccombere sotto il peso del senso di colpa per non riuscire a trovarne.

Prendo tempo. Fingo di accettare di considerare la sua assurda richiesta.

“Stefano, dammi un paio giorni per organizzarmi, ok”?

“Non di più Luca. Io qua non ci resisto... impazzisco”!

“E poi non si capisce niente, Luca! Anche se ho conosciuto un gruppo di ragazzi che mi hanno offerto del fumo: qui è buonissimo”!

...siamo a posto, penso...

Chiamo Paola, la mia capa.


penso sempre che il mestiere dell’educatore non possa non prevedere
una quota di autentica follia, di pensiero fuori dagli schemi


“Paola, Stefano è a Stoccolma, sotto l’effetto dei suoi deliri, non riesce più a tornare indietro, paralizzato alla stazione dei treni...”

Mi prendo un secondo di pausa, respiro e poi, serissimo, aggiungo: “io vado a prenderlo. Parto domani”.

Penso sempre che il mestiere dell’educatore non possa non prevedere una quota di autentica follia, di pensiero fuori dagli schemi, dalle procedure e dai manuali, che spesso sono utili solo a normalizzare l'ordinario ed evitare di immergersi nello straordinario, ovvero il quotidiano del nostro lavoro. Una follia lucida e consapevole che sa essere strumento sofisticato, scientifico, potente, da usare contro le diaboliche avversità che sfidano la prevedibilità del nostro agire, e la sua inutilità. Una follia che è valore aggiunto perché protetta dalla ragione, che sa abbandonare sé stessa per perdersi e ritrovarsi, riconoscendo, talvolta, la propria impotenza. E sapendo che esiste un “oltre” che a volte è necessario valicare. Un mondo di possibilità non convenzionali, non prevedibili o codificabili, e quindi vere, autentiche, umane. Quelle pericolose e utili vie d'uscita per andare avanti quando nient’altro è possibile e il mondo sta per crollare.

“Vengo con te, Luca: non puoi fare 4.000 chilometri da solo. Partiamo però venerdì sera. Io lunedì devo essere a Milano, al consolato Russo per i documenti di Sergej. Passami a prendere alle 6 del pomeriggio a casa di mia sorella, a Monza. Partiamo da lì”...

...se lo dice il capo...

E così alle 20:00 del 29 aprile 2005 io e Paola siamo partiti con l’Opel Corsa di mamma Ester alla volta di Stoccolma. Tempo previsto per arrivarci: un giorno intero.

I miei infallibili calcoli matematici ci garantivano un ampio margine di azione. 4.180 chilometri da percorrere, ad una media di 100km all’ora  facevano (soste comprese) 46 ore di viaggio. Partendo alle 20:00 di venerdì avevamo a disposizione più di due giorni pieni, un tempo che io e Paola avevamo osato definire “comodo” per l’impresa.

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I problemi, infatti, erano altri. Stefano era a Stoccolma, forse in stazione centrale, non solo in preda ad una crisi psicotica ma anche estremamente ricettivo a qualsiasi genere di aiuto “facile” gli fosse stato offerto. A questo si aggiungevano insidiosi problemi tecnici: il suo cellulare spesso non prendeva e non sempre era in grado di ricaricarlo. La sua autonomia nel risolvere i problemi praticamente nulla. La sua capacità di descrivere con precisione dove fosse era ridotta ai minimi termini, senza parlare poi di una conoscenza improvvisata e “naïf” del territorio e della situazione generale.

Durante il viaggio avevamo anche una sorta di campo base, una “stazione di controllo” disponibile 24 ore su 24: un nostro amico che da Milano ci guidava rispetto al tragitto da fare, alle ricariche del cellulare, alle informazioni rispetto al traghetto da prende per la Danimarca, all’orario dei treni. Sì, perché, ad un certo punto del viaggio, mi è venuto in mente, sfruttando che Stefano era in stazione a Stoccolma, di farlo avvicinare a Malmö, all’estremo sud della Svezia, a pochi chilometri da Copenaghen, con un risparmio secco, tra andata e ritorno, di 11 ore di viaggio. Roba da potersi permettere di fare i turisti in centro a Copenaghen, magari andando a mangiarsi un boccone in santa pace, e scattare due foto ricordo!

È vero: io e Paola eravamo completamente immersi nel clima di follia stabilito da Stefano. Quello era il codice di accesso, non ci si poteva muovere se non lo si accettava in toto, agendo di conseguenza. Solo così si poteva capire cosa fare.

Tante volte noi operatori “pontifichiamo” sul termine empatia, senza sapere che, ammesso che davvero sia possibile comprendere appieno lo stato d’animo dell’altro (...figuriamoci!), questo dovrebbe richiedere di calarsi fino in fondo nel suo mondo. Come questo sia possibile senza sporcarsi le mani, ovvero, almeno in parte, senza perdersi negli abissi dell’altro, entrando in sintonia con emozioni, sentimenti, struttura del pensiero dell’altro, io non l’ho mai capito!

Ricordo, a distanza di dieci anni, un viaggio sempre notturno, ricco di fari accesi, asfalto buio e navigatore che conta i chilometri. Di stazioni di servizio fatte di caffè, bagni e carburante, di cellulari che non prendono o dai quali inaspettatamente riemerge una risposta, e la mia costante ossessione: sei ancora a Stoccolma?


l’emozione che sale alle stelle ci impedisce di sentire la fatica
di un viaggio infinito, quasi senza soste


Non ricordo un pranzo, non ricordo di aver dormito (cosa che succedeva quando guidava Paola), non ricordo di essermi mai lavato.

Ricordo il traghetto da Rostock, in Germania, a Gedser, come un regalo: un’ora e mezza di viaggio verso la Danimarca, dove è stato possibile rilassarsi, far finta di leggere qualcosa, pranzare come quando si è in vacanza all’estero, con un lunghissimo caffè nero accompagnato da biscotti allo zenzero! E finalmente non pensare, guardare il mare di notte, farsi trasportare dalle onde e dal vento: una volta tanto fingendo di non essere più al timone delle proprie azioni.

E ricordo il ponte di Øresund, il mitico drago marino che collega Copenaghen a Malmö. Prima si tuffa in mare quando lascia la Danimarca, poi riemerge in mezzo al Mar Baltico e punta dritto, maestoso, verso la Svezia. Una porta di ingresso regale, perfetta per la simbologia del viaggio che stavamo facendo.

E finalmente l’ingresso a Malmö. E un sospiro di sollievo: siamo arrivati!

Che tradotto vuol dire: mancano solo 665km... Nel niente. Solo boschi immensi, strada dritta, buio; querce e faggi, strada dritta, buio; verde accecante, strada dritta, buio...

Finalmente arriviamo a Stoccolma. È sera. L’emozione che sale alle stelle ci impedisce di sentire la fatica di un viaggio infinito, quasi senza soste. Da qualche ora l’imperativo categorico ad uno Stefano delirante è: rimani in stazione all’ingresso principale, qualsiasi cosa succeda!

Paola ferma la macchina davanti alla stazione, quasi entrandoci dentro, come per prendere al volo un treno che sta partendo. Chiamo Stefano, che non è davanti all’ingresso principale e ha sempre meno carica sul cellulare... “Siamo arrivati, dove sei”!, quasi gli ordino.

Risposta: “sono qui, Luca”...

“Qui dove, Stefano?!”

“Qui, in Stazione a Stoccolma”!

Oddio...

Gli chiedo di darmi un punto di riferimento, di dirmi cosa vede, ma lui non riesce a descrivere niente di preciso. Mi viene in mente, allora, di chiedergli se vede un’indicazione per i binari. “Sì, sono sotto il binario 15”. Ok, perfetto! Sali, ci vediamo lungo il binario 15!

Cerco freneticamente il binario 15, lo trovo e salgo di corsa le scale! Arrivo quasi senza ossigeno, come dopo un’immersione al limite della resistenza polmonare, improvvisamente smaltendo le fatiche di 25 ore di viaggio senza sosta e con l’aspettativa di assistere ad un’apparizione.

La banchina è vuota. Stefano non si vede. Mi giro intorno ma niente. Controllo il numero del binario: è quello stabilito.

Lo chiamo e il cellulare ancora squilla.

“Stefano dove sei”?!

“Sono qui, Luca. Ma tu non ci sei”...

Per un attimo mi si gela il sangue.

Scaccio dalla mia testa, urlando e tirando pugni come fossi aggredito, un incubo agghiacciante, che improvvisamente mi invade: ma chi ha detto che Stefano è a Stoccolma?!


La seconda parte verrà pubblicata domani


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