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Era il 26 novembre 2008 quando sei arrivata e ancora per due giorni avresti avuto 11 anni. Eri una bambina o almeno così ti presentavano. Certo con un passato (neanche tanto passato) molto pesante. Credo la tua sia stata una delle relazioni di presentazione del servizio sociale più difficile da leggere per intero, in una volata sola – ma sempre bambina eri o sembravi ai nostri occhi.

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Eri vestita tutta di rosa come di solito si vedono vestite le bambine di almeno tre anni meno di quelli che avevi. Ti avevano presentato come una bambina che non sapeva leggere l’ora, non sapeva lavarsi e vestirsi, non capiva quello che gli altri le dicevano e non sapeva fare un discorso di senso compiuto. Pessima presentazione che ci ha fatto chiedere al tuo Servizio, prima di accoglierti, di rivolgersi alla neuropsichiatria per una avere una valutazione completa. La valutazione dopo dieci giorni di ricovero diceva che avevi un ritardo mentale medio e i medici hanno voluto sottolineare quanto questo ritardo fosse non invalidante, ma nemmeno recuperabile e mi hanno suggerito di lavorare ricercando e rinforzando le tue risorse sicuramente presenti.


Ce l’hai messa proprio tutta per farti accettare da loro, ma eri "quella sbagliata". Tornavi così provata dalle umiliazioni anche non esplicite a cui eri sottoposta nelle loro case...



Fin da subito abbiamo visto che queste non ben definite "risorse" le avevi eccome e, soprattutto, fin dai primi giorni abbiamo verificato come quello che si diceva nella tua presentazione, in particolare rispetto all’interazione con l’altro, non fosse del tutto veritiero. Hai saputo instaurare buone relazioni sia con le ospiti che con gli educatori, tanto da diventare la “mascotte” della nostra Casa. Raggiunti con grande fatica gli obbiettivi minimi per stare da noi, abbiamo cominciato a pensare che per te ci volesse qualcosa che ti permettesse di sperimentarti all’esterno della comunità. Abbiamo cominciato accogliendo le tue richieste.

Tu non ne avevi in particolare, se non quella di poter trascorrere più tempo con i tuoi fratelli, i quali nel frattempo, senza particolari fatiche, si erano ben inseriti e adattati alle loro rispettive famiglie affidatarie (proprio quelle che ti avevano esclusa perché difficile da gestire e soprattutto perché disturbante per il percorso dei tuoi fratelli minori). Ci abbiamo provato, anzi ci hai provato e ce l’hai messa proprio tutta per farti accettare da loro, ma eri "quella sbagliata". Tornavi così provata dalle umiliazioni anche non esplicite a cui eri sottoposta nelle loro case... All’inizio negavi e dicevi che tutto era andato bene, fino ad esplodere in un pianto a dirotto chiedendomi perché mai loro non riuscissero ad accettarti. Abbiamo allora provato a farti esplorare altri ambienti dove tu potessi crearti nuove relazioni: facendoti partecipare a gruppi di aggregazione giovanile, agli scout, a gruppi sportivi, alla scuola professionale... Nulla da fare! Eri in grado di trovare il modo per farti mandare via, aumentando così la tua svalutazione e l’incapacità di creare una relazione con gli altri. Riuscivi solo a mettere in atto comportamenti che ti avevano insegnato fin dai primi anni della tua vita: la provocazione con l’altro sesso, l’accattonaggio e i piccoli furti. Di conseguenza, abbiamo ritenuto non fosse sufficiente il sostegno educativo e psicologico che fin dai primi tempi dell’inserimento nella nostra Comunità stavi avendo che forse per te, ora, era il caso di individuare un centro specialistico che trattasse proprio il trauma che avevi subito. E così, dopo aver convinto il tuo Servizio Sociale a condividere con noi la scelta di questo percorso, hai iniziato le sedute. Quanta fatica! Ma in un anno sei sicuramente riuscita a portarti a casa piccoli strumenti per affrontare la tua storia passata, soprattutto nella relazione coi tuoi fratelli, non sentendoti più solo quella sbagliata, ma la sorella maggiore che aveva subito i più pesanti maltrattamenti.

Il tempo intanto passava e tu stavi oramai per raggiungere la maggior età, ma di lavoro ne avresti dovuto fare ancora e tanto. Quanto avrei voluto trovare un'altra carta per costringere l'equipe a tenerti ancora con noi e invece abbiamo deciso che forse era il momento, dopo quasi cinque anni, che entrasse in gioco qualcun altro. E poi diciamocela tutta: il rapporto con la nostra comunità era diventato insostenibile. Qualsiasi cosa era pretesto per discussioni, fughe e ripicche senza senso da parte di entrambi. Facevo veramente fatica a capire che il nostro tempo di lavoro insieme dovesse ritenersi oramai concluso, eri diventata per me parte integrante della nostra vita, della storia della nostra Casa. Per capire meglio quale fosse la struttura giusta che potesse continuare il nostro lavoro, considerando le tue inclinazioni ma anche i tuoi limiti − importanti ancora fortemente presenti –, era necessaria un'ulteriore valutazione, questa volta in una clinica specializzata nei problemi adolescenziali. Alla presentazione in clinica siamo andate insieme. Solo io e te. È stata una delle giornate più pesanti che io abbia vissuto nelle mia esperienza professionale. Durante il colloquio coi medici sei stata completamente immobile e non hai proferito parola. Mi sono vergognata per te non capendo il motivo per cui ti fossi chiusa in un silenzio senza senso. In fondo nell'ultimo periodo mi ripetevi con insistenza di voler andare via dalla nostra comunità, per andare in una con ragazzi più grandi. Ti ho chiesto di uscire un attimo con me perché volevo capire che diamine ti stesse succedendo. Mentre sbraitavo contro il tuo incomprensibile comportamento, tu hai cominciato a piangere a dirotto e mi hai chiesto, supplicandomi, di non lasciarti lì, che avresti fatto la brava. Hai detto che avresti voluto venire a vivere con me. Ricordo bene le tue parole: “So che hai una camera in più in casa". Solo in quel momento, aiutandoti ad asciugarti le lacrime e cercando di spiegarti il motivo per cui non era possibile esaudire la tua richiesta, mi sono accorta che eravamo all'interno di una cappella e stavamo proprio sotto la statua della Madonna con in braccio il bambino Gesù, una raffigurazione della maternità. Non abbiamo poi più avuto modo di affrontare quel tema e le cose sono andate come forse dovevano andare. Tu sei rimasta lì in clinica per più di un mese. Ci sentivamo settimanalmente, siamo venuti più volte a trovarti. Da lì poi sei stata trasferita in una comunità terapeutica.

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Anche in quella occasione sono stata io ad accompagnarti. Una volta arrivati nella tua nuova casa, ci siamo trovate di fronte a un ragazzo che gridava forte e picchiava con rabbia contro la porta d’ingresso pugni pesanti. Tu mi hai subito preso la mano e mi hai rassicurata dicendomi: " Anche da noi qualcuno l’ha fatto, non ho paura". Entrambe salutandoci ci siamo poi commosse ricordando i vecchi tempi passati insieme e giurandoci che mai ci saremmo lasciate, perché il nostro cuore era unito da una mai pronunciata promessa di legame eterno.


Scrivere di te, del tuo lungo percorso nella nostra comunità. Scrivere di noi, della nostra relazione. Scrivere di come tutto è cominciato, di quando tutto è cominciato, del perché è cominciato, ma soprattutto del perché tutto è continuato fino all'esaurimento


Durante l’anno che hai trascorso nella comunità terapeutica ci siamo sentite di rado, perché volevo tu potessi iniziare un nuovo percorso con loro, imparando a fidarti come avevi fatto con noi. Mi informavo tramite il responsabile della struttura e lui mi riportava l’estrema difficoltà a pensare soprattutto a un prosieguo al di fuori dalla comunità, perché scarse sarebbero state le tue possibilità di riuscita in un progetto di completa autonomia. Nonostante ciò il servizio sociale non stava provvedendo ad un'altra soluzione. Pochi giorni prima del tuo diciannovesimo compleanno ti ho chiamata e mi hai detto che ti avrebbero dimesso dopo soli due giorni e che ancora non sapevi dove saresti andata. Dopo essermene sincerata con l’educatore in turno ho immediatamente cercato di trovare una soluzione e la soluzione era che tu tornassi da noi, da me, fino a quando non si fosse trovato un posto definitivo e adatto a te. Come abbiamo vissuto la mia decisione in maniera del tutto diversa, io e te ... e anche in questa circostanza io non ti ho capita. Tu mi spiegavi che, anche se ti avrebbe fatto piacere tornare per un po' da noi perché ti piaceva la nostra casa, tuttavia dentro di te sarebbe stato come fare dei passi indietro rispetto a quelli che ti sentivi di aver fatto in quell’anno lontana da noi. C'era poco da fare! Tu non avevi un posto e io ti rivolevo con me. Quindi sei tornata da noi senza che nessuno ti ascoltasse e soprattutto senza che io ascoltassi i suggerimenti che mi venivano da ogni parte della mia équipe che mi dicevano che il tuo reinserimento sarebbe stato fallimentare, perché quella che avremmo accolto non era più la ragazza che avevamo lasciato. Si è visto da subito e da subito ce l’hai dimostrato a tuo modo sfogando la tua rabbia per non essere ascoltata, rompendo tutto e facendoti del male e rinfacciandomi che tutte quelle cose che ora eri in grado di fare, per farti e fare del male, accadevano per colpa mia, perché ti avevo mandato in quel brutto posto senza averti ascoltato. Ed eccoci giunti alla fine: dopo soli due giorni, tre vasi rotti, una porta incisa e i tuoi polsi tagliati, ti abbiamo definitivamente salutato.

Scrivere di te, del tuo lungo percorso nella nostra comunità. Scrivere di noi, della nostra relazione. Scrivere di come tutto è cominciato, di quando tutto è cominciato, del perché è cominciato, ma soprattutto del perché tutto è continuato fino all'esaurimento: fino a lasciarmi dentro un forte senso di frustrazione e di fallimento, perché anche dopo aver lottato contro i mulini a vento mi sono seduta e, spossata, ti ho salutato. Sconfitta come se per cinque lunghi anni io avessi combattuto una battaglia contro il nulla e avessi perso. È vero, un po' l’ho fatto: ho combattuto contro la mia équipe, che fin dal primo giorno in cui tu ti sei presentata mi hanno detto che da noi non sarebbe stato il posto giusto per te, e hanno continuato a ripetermelo, mentre gli anni passavano e i risultati del nostro lavoro erano veramente minimi ai loro occhi. Tutte le volte per convincerli, e per convincermi, cercavo qualcosa o qualcuno che ancora potesse farti scoprire quante risorse avessi da spendere. È stato difficile e, in alcuni momenti, estenuante: ma ho sempre voluto crederci. Ho lottato contro i tuoi limiti scoprendo via via anche tante risorse. Non era vero quello che dicevano di te prima dell' inserimento. E infine ho lottato con il forte sentimento che ancora mi lega a te...Non so perché e ancora me lo chiedo, visto che ti vivo come il MIO fallimento. Alla fine te ne sei andata e quasi neanche ci siamo salutate, anche se avrei voluto nuovamente riuscire a leggere nei tuoi occhi il desiderio di non mollare, di non mollarmi e di riprovarci insieme. Ma per cosa? Temo che sia solo per il forte sentimento che ancora mi lega a te, alla tua storia così lunga e così travagliata, e soprattutto senza un lieto fine – ciò a cui almeno io ho sempre sperato per te. Una cosa però mi hai insegnato: non devo mai pensare o decidere per qualcun altro, ma farlo con quel qualcun altro, e che ognuno di noi con le proprie risorse e i propri limiti può e deve costruire il futuro che desidera.

Spero di rivederti un giorno e spero di avere la possibilità di ridere ancora insieme a te, ricordando tutto quello che di buono o meno buono abbiamo vissuto insieme, perché senza ombra di dubbio è stata una lunga, bella storia che, almeno io, porterò con me per sempre nei miei anni di vita.

Giulia Pacchiarini
Responsabile della comunità educativa femminile "Casa Miriam" della Cooperativa Sociale Arimo