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Quando arrivo in cortile, come sempre, butto l’occhio sull’ingresso della palazzina. So già che troverò il bidone della spazzatura stracolmo e che le scale saranno sporche, poco curate e piene di foglie. Che nervi, è una battaglia persa! Questa volta, però, l’occhio mi cade sul tavolino verde, quello basso della sala, usato dai ragazzi come mobile porta televisore, abbandonato fuori dalla porta sul cortile.

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E questo, cosa ci fa qui?

Mi viene incontro Jacopo, è di buon umore, ha lo sguardo sorridente e pronto alla battuta. Però abbassa leggermente la testa...
Si è rotta una gamba, vedi?

Beh, sì, ma forse la si può riparare, non credi? Lo diciamo a Guido, vuoi che non ce lo aggiusti?

Ma no dai, Luca, è  tutto scassato, non sta più in piedi! E poi vedi, si è tutto rovinato anche il piano di appoggio... è un tavolo vissuto, ne ha viste tante... ci abbiamo fatto anche degli esperimenti!

... degli esperimenti?!

Risata e immediato sguardo complice con il compagno di stanza che, sentito il mio arrivo, è uscito sul pianerottolo. Ma no, niente, lascia perdere...

Altra risata e sguardo sempre più basso, con la mano che si gratta la testa e rapido cambio di discorso.

Jacopo non si immagina neanche che io so perfettamente di quali esperimenti parla.

Lui non può mentire. Sono io che col tempo ho capito che lo si deve frenare prima che si metta nei guai da solo. Non bisogna fargli domande, altrimenti lui risponde la verità, seguendo una logica letterale, non di opportunismo. Questa volta faccio in modo che lui non vada oltre per evitare che, raccontando quello che già so, in qualche modo bruci ciò che faticosamente sta cercando di costruire.

Sarò io che, un giorno, gli dirò che ho visto tutto e che, rischiando molto, ho deciso di non fare niente.

La scena si svolge sei mesi prima.

Interno notte, le persiane sono chiuse, come sempre. Jacopo non vuole che entrino sguardi da fuori, teme il contatto indagatorio esterno, e non solo quello. La piccola luce della cappa della cucina illumina appena, da dietro, quella che poi si capirà meglio essere il soggiorno.

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La mano tiene il telefonino che riprende la scena: lui, il regista e l’attore principale, è di tre quarti. Ha una sigaretta spenta in bocca e gli occhiali neri. Una via di mezzo tra un gangster e il personaggio di un fumetto del Paz, di cui si coglie quasi solo il bel profilo netto e affilato. Appena all’interno dell’inquadratura si vede l’angolo del tavolino verde e, dalla parte opposta, una strana sedia di legno bianca, stile regista, con le rotelle. Gli oggetti sembrano messi apposta a comporre la scena, ma non è così. L’immagine è sgranata, come leggermente mossa. La luce è bassa, si intravede il pavimento di una  stanza anonima, e tutto sembra colorato di rosso cupo.

“Fra’, mi dai da accendere cazzo?”

“Sì frate, arriva!”

Quando Amine, dal fondo della stanza, diagonalmente all’opposto di Jacopo, dà fuoco alla striscia di alcool disegnata sul pavimento, ci si accorge che c’è anche lui. Non lo si vede però, lo si riconosce solo dalla sua voce.

La gocce di fuoco blu si accendono a intermittenza e attraversano rapide la stanza, seguendo una linea disegnata sul pavimento e illuminando appena le piastrelle che incontrano. La striscia di fuoco man mano si irrobustisce, fa una breve gincana e poi si arrampica veloce sul tavolino verde che adesso è in primo piano. Ora finalmente il fuoco è il protagonista principale. La striscia di alcool che diventa fiamma gira a spirale occupando tutto il tavolino, e il fuoco a questo punto si alza, complice il legno per fortuna di scarsa qualità, quasi volendoci rimanere per un tempo più lungo di quanto non aveva fatto mentre correva sul pavimento.

Adesso la luce del tavolino che brucia illumina il resto della stanza che ora è inequivocabilmente quella dell’appartamento del servizio che ospita Jacopo. Si vedono bene la finestra, il tavolo più grande messo contro il muro, le casse dello stereo sopra al tavolo. Si riconosce la sua confusione, il suo preciso disordine.

Il tavolino è completamente in fiamme e il profilo di Jacopo ora è contro luce, ma sempre con la sigaretta in bocca. Finalmente la fiamma, dopo aver girato tutta attorno al piano del tavolo, indugiando ancora un poco, come rispettando una regia calcolata al secondo, arriva a destinazione e accende la sigaretta di Jacopo che si sporge appena per andarle incontro.

“Oh perfetto... perfetto fra’, grazie!”, con tanto di risatina nervosa e compiaciuta per la qualità del girato. Della serie: buona la prima! Il tutto in 18 secondi netti.

18 secondi passano in un attimo, e nell’ultimo fotogramma rimane solo il fuoco.

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Quando vedo il video resto per alcuni momenti a bocca aperta e non so bene se ridere o fare un applauso. Però sento anche un sudore freddo uscirmi dalla fronte...  E cosa succede dopo quei 18 secondi? E i giorni successivi, quali altri giochini si faranno in quella casa?

Jacopo non sa ancora che il video, da lui postato sulla sua pagina facebook visibile a tutti, verrà da me, pochi giorni dopo, “spiato”, o forse sarebbe meglio dire ”rubato”. I ragazzi (e non solo loro) usano il social network come un palcoscenico dove la luce abbagliante del riflettore impedisce di vedere il pubblico, restituendo un’impressione, quasi allucinata, che dall’altra parte non ci sia nessuno.

Un luogo perfetto per comunicare a tutti quello che si vuole, potendo far finta di non considerare davvero che qualcuno, con un nome e un cognome precisi, nascosto in quei tutti, possa vedere.

E invece uno spettatore interessato, quasi con la sensazione di aver sbirciato dal buco di una serratura, c’era. E adesso non poteva far finta di non vedere. E di non sapere che il ragazzo aveva un curriculum come piromane, visto che l’ultimo drammatico episodio di quella serie era stata la goccia che aveva fatto decidere per il suo allontanamento dalla famiglia e l’inserimento in un appartamento educativo.

E qui entra in gioco la seconda parte del film. È una scena educativa, studiata a tavolino come la prima, ma non ripresa col telefonino. E anche questa, dall’esito non così certo e sotto controllo.

Jacopo usava facebook per portare all’esterno pensieri, sfoghi, parti di sé che non trovavano altro spazio per essere mostrati, ma che esondavano costantemente dai confini di ciò che lui poteva far vedere al mondo adulto (e non solo) attorno a lui. Svelare la scoperta del video avrebbe voluto dire correre il rischio di distruggere questo spazio virtuale, in nome di una non meglio precisata difesa dello spazio reale del servizio. Questa invasione di campo e il mettere, questa volta per davvero, sotto la luce del riflettore il potenziale di pericolosità del ragazzo, avrebbe inevitabilmente spostato il baricentro educativo su un’identità portatrice di rischio, negativa e da contenere attraverso meccanismi di controllo e sanzioni.

Tutto questo eliminando con un colpo di spugna il percorso faticoso, ma di costante crescita, che Jacopo stava facendo.

Il bivio educativo che ci si è posto davanti era se mettere al centro la difesa del servizio o la difesa dell’originale e sconosciuto percorso del ragazzo. Un bivio che spesso divide gli operatori, a volte quasi in una dimensione di tifo da stadio, dove le posizioni si contrappongono e si sfidano a vicenda.

Ma noi sappiamo che le due cose, in realtà, non sono separate...

E infatti, nel decidere di non far niente, l’equipe ha scelto la difesa del servizio e del percorso di Jacopo.

Il non far niente, in una situazione di questo tipo, permette di tutelare il servizio rispetto al tema della fiducia verso un ragazzo che, faticosamente, stava provando a concederne pezzi sempre più rilevanti. Un ragazzo che non avrebbe forse capito l’attacco al suo spazio privato, con l’inevitabile conseguenza di rimettere l’accento su una pericolosità, fino a quel momento, tenuta fuori dalla porta. Quella che forse era catalogabile solo come una rischiosa bravata, poteva improvvisamente venire trasformata in una condizione di esclusione, un ritorno al passato che inchioda in un’identità immodificabile. Una incapacità a gestire gli spazi dell’abitare che, rapidamente, avrebbe fatto perdere posizioni preziose a Jacopo nella scalata verso un maggiore equilibrio del suo stare nel mondo e del suo provare a venire a patti col “bruciare” tutto quello che costruiva.

Perdendo quote di controllo e di intervento sanzionatorio, il servizio avrebbe acquisito quote di autorevolezza e autenticità, mostrando di non temere la caduta o l’inciampo e di scommettere consapevolmente sulle capacità del singolo ragazzo di riparare da solo al danno, facendone esperienza diretta e creandosi autonomamente piccole ma solide basi sulle quali provare a costruire pezzi di autoefficacia e fiducia in sé stesso.

Troppo spesso, noi educatori, ci appropriamo dei successi dei ragazzi, inducendoli, provocandoli, forzandoli. La vera crescita è quella che avviene perché può non avvenire, perché nasce in contro piede, spontanea e senza reti di protezione, e perché qualcun altro non ne possa rivendicare, anche solo silenziosamente, il merito.

Quando il bambino dice al papà di togliere la mano dal sellino che adesso vuole pedalare da solo e si accorge che l’ha già tolta, capisce che il papà ha creduto, prima di lui, che poteva farcela da solo. Ma più ancora capisce che per il papà sarebbe andata bene lo stesso anche se fosse caduto.

Nell’assumersi la responsabilità del rischio, il servizio mette al centro il ragazzo e la difesa del suo progetto personale di crescita, smorzando e non sottovalutando le potenza delle forze distruttive sempre presenti, ma facendo leva su quelle costruttive, che faticosamente lottano per radicarsi e che hanno bisogno di infinite cure e sostegni.

Nel non far niente il servizio ha deciso di fare l’azione più difficile: prendersi il peso dei rischi e lasciare il merito della crescita.

Un giorno dirò a Jacopo che io sapevo quali esperimenti aveva fatto sul suo tavolino verde.

E quel giorno lui mi dirà che l’aveva capito. O che non sa di cosa sto parlando...


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