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Li ricevo tutti nella stessa mattina, l’ultima dell’anno. Non si conoscono tra di loro e si incrociano solo nella sala d’attesa. Ognuno mi racconta la sua storia. È una pena non solo di memoria, ma psicologica, però è necessaria per tentare di ricostruire i motivi per i quali sono scappati dal loro paese e non possono più farvi ritorno e presentare ricorso contro il diniego della protezione internazionale.

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Il loro è un cammino ad ostacoli: iniziato con un trauma, una perdita, una distruzione, una persecuzione e proseguito tra distacchi, ferite, lutti, prigionie, violenza estorsiva o gratuita e mare.

Il primo della mattina non riesce quasi a guardarmi negli occhi. Emana dolore da ogni parte di sé. Lo strazio, seppure muto e immune da lacrime, è tangibile e sembra riempire la stanza. La sua educatrice, l’interprete ed io ci scambiamo sguardi di sconsolata compassione.

Dobbiamo aiutarlo a raccontare la sua vita e il suo percorso nel modo più puntuale possibile e per questo tocca incalzarlo con domande oscenamente intime e penose.

«Quanto tempo sei rimasto intrappolato in Libia? Per quanto ti hanno tenuto imprigionato nelle carceri / lager? Ti hanno torturato? Con quali modi e strumenti? Mostrami le ferite. E nel tuo paese, chi ti ha fatto violenza?»

Fanno male a pronunciarle, queste domande, prima ancora di aver ascoltato le risposte. Alla domanda: « qualcuno ti ha fatto male in Libia?", i profughi interrogati ti guardano come se venissi da un altro pianeta: certo che mi hanno torturato.

E poi c’è l’ultima domanda, quella che nessuno, incredibilmente, gli pone mai: quando avete preso la barca dalla Libia e avete attraversato il mare, all’approdo siete arrivati tutti vivi?

Lui, il primo dell’ultima mattina dell’anno, riceve il quesito come una pugnalata: sorpresa e dolore, ancora dolore. Alza solo un instante gli occhi dalle mani che non ha mai smesso di tormentarsi: «Eravamo 130 e siamo arrivati in 23» e poi basta, le labbra si serrano e gli occhi si abbassano.

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Ha assistito impotente e atterrito alla morte di 107 persone. E non ne ha mai potuto parlare prima.

Lo indirizziamo immediatamente ad uno dei nostri psicologi di fiducia nella speranza che persone più adatte di me sappiano ridargli pace.

I due profughi che si siedono dopo di lui in quella stessa mattinata rispondono anche loro a questa macabra conta dei morti in mare nei loro rispettivi viaggi: 5 e 15.

In tre ore abbiamo contato 127 creature annegate. Che resteranno probabilmente senza lapide, né nome, esclusi pure da ogni statistica.

Vanno a sommarsi ad altri sommersi, ai 2242 affogati contati nel Mar Mediteranno nel 2018. A loro devono aver pensato i coraggiosi europarlamentari che hanno firmato una risoluzione in favore del rilascio del visto per motivi umanitari.

Intanto 49 naufraghi salvati da due navi delle ong stanno bloccati in mezzo al mare in tempesta da 13 giorni perché ministri e governi criminali hanno deciso di chiudere i porti mentre sindaci obbedienti alla Costituzione e alla fascia tricolore che li avvolge offrono, disattesi, le banchine delle loro città.

E noi a terra, asciutti, ma per nulla sereni, attendiamo l’approdo firmando appelli, inviando diffide, consapevoli di stare ancora una volta, tutti sulla stessa barca.


articolo precedentemente pubblicato da Repubblica


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