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Lei la chiameremo Sara, perché i profughi, i dissidenti, i disertori e i perseguitati, devono, tra le tante perdite, rinunciare anche al nome, all'identità, di modo da non permettere mai al nemico dittatore o persecutore, dotato di buona memoria e maligna pazienza, di vendicarsi contro chi abbia osato ribellarsi e fuggire o contro la famiglia dei fuggitivi rimasti alla sua mercé.

20141002 Ballerini

{xtypo_quote_right}È in Italia da una vita, dalla sua seconda vita. E' fuggita dall'Eritrea, dove, com'è noto, il regime impone un servizio militare senza limiti temporali a giovanissimi uomini e donne, costretti così a imbracciare armi per tutta l'esistenza.{/xtypo_quote_right}

 

Lei, Sara, che Sara non è, la conosco da tantissimi anni. E' in Italia da una vita, dalla sua seconda vita. E' fuggita dall'Eritrea, dove, com'è noto, il regime impone un servizio militare senza limiti temporali a giovanissimi uomini e donne, costretti così a imbracciare armi per tutta l'esistenza. Era venuta in sindacato per farsi aiutare, aveva dei problemi con il datore di lavoro che la sottoponeva a estenuanti turni di notte, difficilmente conciliabili con la faticosa gestione di un figlio piccolo.

Risolti i problemi, ottenuta anche la cittadinanza italiana, dopo anni di lavoro e regolare residenza in una casa di proprietà, quando la vita sembrava finalmente essersi ammorbidita fino a diventare — a tratti — quasi vivibile, Sara decide che è il momento giusto per riabbracciare parte della sua famiglia, rimasta imprigionata in Africa, tra Eritrea, Etiopia e Libia.

Inizia dal figlio appena maggiorenne, disertore e dunque a rischio di prigionia e torture. La pratica dura un'infinità, le Ambasciate Italiane, come spessissimo accade, cercano ogni cavillo per negare i visti d'ingresso a chi ne avrebbe invece assolutamente diritto e, laddove non riescono a trovare appigli burocratici per rifiutare i ricongiungimenti, i nostri solerti funzionari si prodigano in lentezze e ritardi.

20140702 ballerini

{xtypo_quote_left}All'ultimo per fortuna (e per dovere) l'Ambasciata emette il visto d'ingresso e il figlio può ricongiungersi con la madre senza rischiare prigionie, torture e violazioni in Libia o la morte nel terribile viaggio verso l'Italia.{/xtypo_quote_left}

 

Dopo un'estenuante quanto rischiosa attesa, il figlio minaccia la madre, Sara, che Sara non è, di salire su un barcone, perché sa che il diritto all'ingresso in Italia spesso negato dalle istituzioni, la mafia degli scafisti lo offre invece prontamente in cambio di denaro.

Come direbbe il Generale Dalla Chiesa questi trafficanti di esseri umani concedono come un «favore» ciò che lo Stato dovrebbe assicurare come un diritto.

All'ultimo per fortuna (e per dovere) l'Ambasciata emette il visto d'ingresso e il figlio può ricongiungersi con la madre senza rischiare prigionie, torture e violazioni in Libia o la morte nel terribile viaggio verso l'Italia.

Appena il ragazzo arriva a Genova, Sara me lo porta subito a conoscere e piange felice perché è sano e salvo e finalmente a casa, al sicuro.
Ma resta ancora il marito da portare in Italia, si ricomincia così tutta la trafila della procedura di ricongiungimento. L'Ambasciata ci fa penare e aspettare per un anno e a nulla valgono lamentele, messe in mora, raccomandate e fax.

L'altro giorno Sara, che non è Sara, è tornata da me. Il viso di marmo, gli occhi asciutti.
Resta in piedi e mi racconta tutto d'un fiato. Il marito, non potendo più aspettare l'inerzia delle istituzioni, è scappato in Libia e qui dopo aver pagato chissà cosa in sofferenze, terrore e soldi, è salito su una carretta del mare.

Un'ultima telefonata dalla spiaggia libica un saluto pieno di promesse e paure. E poi più niente. Solo un interminabile silenzio.
Il corpo del marito di Sara probabilmente è uno dei circa 2500 corpi che dall'inizio del 2014 sono stati inghiottiti dalle onde nel tentativo di raggiungere l'Italia. Uno dei molti morti due volte perché rimasto senza nome in fondo al mare.

Mi legge nel pensiero, Sara, e quasi mi consola: non è colpa tua, mi dice.
Forse. Ma neanche del mare.

articolo pubblicato da "La Repubblica - Genova"