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I ragazzi e le ragazze che terminano o stanno per terminare un percorso residenziale in comunità e/o in affidamento familiare faticano a trovare spazi relazionali sufficienti e rispondenti alla loro necessità di emanciparsi e di “normalizzare” le loro traiettorie biografiche.

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Traiettorie la cui direzione di rischio, grazie all’intervento residenziale, è stata – o almeno si presuppone – modificata verso una dimensione protettiva che avrà certamente limitato la loro vulnerabilità favorendo un graduale sviluppo di resilienza (Di Blasio 2005). La resilienza però non può essere ricondotta ad un risultato che, una volta acquisito, permette un funzionamento sano, equilibrato e duraturo (Milani, Ius 2010). La capacità di resistere e di superare le difficoltà della vita non può essere considerata come un “tratto” immodificabile ma anzi, nel caso di individui “feriti” e ancora troppo giovani e troppo poco adulti come i neomaggiorenni “fuori famiglia”, determinati fattori di rischio sopravvenuti in seguito alla conclusione del percorso residenziale, possono causare variazioni negative dei loro percorsi di vita, riattivando dinamiche regressive riconducibili alle condizioni di vulnerabilità sperimentate prima dell’approdo nel contesto protettivo.

{xtypo_quote_right}I giovani che sperimentano il passaggio dai servizi residenziali all’età adulta mostrano un livello inferiore alla media di istruzione, salute, benessere, inserimento lavorativo e capacità di far fronte alla spese personali rispetto ai coetanei.{/xtypo_quote_right}

Per meglio comprendere tali considerazioni occorre analizzare quali sono i cambiamenti che possono avvenire in seguito all’uscita dalla comunità o dall’affido familiare.

Non essendoci in Italia a tutt’oggi alcuno studio specifico in grado di descrivere gli esiti e le condizioni dei giovani-adulti che escono dalla presa in carico del servizio minori, occorre fare riferimento a diversi studi internazionali (Calheiros, Garrido, Rodrigues 2009; Stein, Munro 2008; Dixon 2008). I risultati di tali ricerche hanno evidenziato che normalmente i giovani che sperimentano il passaggio dai servizi residenziali all’età adulta mostrano un livello inferiore alla media di istruzione, salute, benessere, inserimento lavorativo e capacità di far fronte alla spese personali rispetto ai coetanei. Tali fattori comportano diversi rischi quali l’esclusione sociale, la devianza, la delinquenza, la disoccupazione, la non fissa dimora, lo sviluppo di svariate forme di psicopatologia, la tossicodipendenza e la precoce genitorialità (Premoli op. cit.). Studi svolti in contesti istituzionali hanno evidenziato che un ulteriore fattore di rischio è rappresentato dalla carente preparazione pratica alla vita autonoma durante l’accoglienza (Freundlich, Avery 2006).

Le cause del presentarsi di tali fattori possono essere riconducibili - oltre che alle esperienze relazionali traumatiche e disfunzionali precedenti l’inserimento nel contesto  - alle lacune dell’intervento residenziale e alle carenti – o assenti – risorse sociali ed economiche presenti dopo i diciotto anni.

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Per quanto riguarda il caso dell’Italia, ci troviamo di fronte ad una situazione paradossale, ovvero quella che noi abbiamo denominato “la contraddizione dell’accoglienza”: ad ogni collocamento di un bambino o di un adolescente in una comunità residenziale corrisponde un utilizzo di risorse economiche pari ad una media di circa 100 euro di retta giornaliera che corrisponde a circa 36.000 euro all’anno. Se prendiamo in considerazione una media di due anni per ogni collocamento la spesa sociale di un inserimento in comunità è all’incirca di 70.000 euro per ogni soggetto. Durante l’accoglienza in comunità i bambini e gli adolescenti sperimentano la presenza costante di molte persone tra cui educatori, volontari, tirocinanti e coetanei. Con queste persone instaurano delle relazioni spesso intense, di lunga data, significative che offrono al minore una dimensione protettiva, un supporto quotidiano stabile e rassicurante, una “base sicura” alla quale fare riferimento giornalmente. Anche se, difensivamente, spesso non lo dimostrano, questi aspetti della quotidianità hanno un significato molto importante per queste ragazze e per questi ragazzi: essi, da un lato,  hanno voglia di sentirsi grandi, autonomi, “fuori” dalla comunità. Dall’altro sono profondamente tristi, preoccupati e impauriti dal “vuoto” relazionale che sentono sopraggiungere.

Al compimento del diciottesimo anno d’età, se non ci si trova di fronte ad un caso di prosieguo amministrativo o di messa alla prova, la gran parte dei ragazzi/e non dispone più di un sostegno economico da parte dei Servizi Sociali. Talvolta alcuni Servizi optano per una prosecuzione di qualche mese affinché si proceda all’individuazione di un contesto abitativo autonomo esterno alla comunità residenziale, ma si tratta di casi rari e sporadici che sembrano diminuire a fronte del recente taglio ai finanziamenti agli enti locali. L’assenza di una retta presuppone, inevitabilmente, la necessità di una dimissione. La dimissione causa sentimenti di angoscia e vissuti regressivi a cui segue una “vulnerabilità riacquisita”.

{xtypo_quote_left}Quando invece il passaggio a questa autonomia “forzata” è privo di elementi protettivi in grado di condurre ad un accompagnamento graduale, si rischia di vanificare tutto ciò che di positivo è stato fatto durante il percorso in comunità o in affidamento familiare{/xtypo_quote_left}

 

È evidente pertanto lo scarto abissale tra i mezzi di cui un giovane può godere fino a diciotto anni o poco più e il decadere da un giorno all’altro delle risorse, sia umane che materiali, investite a suo favore. Il tutto diventa ancora più critico se a ciò fa seguito la disoccupazione, l’assenza di un alloggio e di una rete sociale. Fortunatamente alcuni operatori dei servizi residenziali provvedono con le loro forze a far fronte a questo vuoto, attraverso azioni di accompagnamento strategicamente realizzate con il ricorso a risorse interne, spesso caratterizzate da una dimensione di generosa gratuità.

Quando invece il passaggio a questa autonomia “forzata” è privo di elementi protettivi in grado di condurre ad un accompagnamento graduale, si rischia di vanificare tutto ciò che di positivo è stato fatto durante il percorso in comunità o in affidamento familiare. Gli esiti di questo mancato accompagnamento possono pertanto caratterizzarsi in percorsi di disagio sociale crescente, devianza, delinquenza, psicopatologie, dipendenze e criminalità. Pertanto il rischio è quello di assistere ad una graduale deriva nel disagio cronico con conseguente ricorso ai servizi sociosanitari, ricoveri ospedalieri o in comunità per tossicodipendenti, incarcerazioni, ecc. Se si pensa che mediamente un carcerato può costare allo Stato circa 300 euro al giorno è facile rendersi conto che la “spesa sociale” non può far altro che essere maggiore rispetto all’investimento che si sarebbe potuto fare accompagnando con criterio e gradualità all’autonomia e all’inclusione sociale.

Diverso è il discorso che può essere fatto nel caso dell’affidamento familiare rispetto al quale le risorse impiegate sono molto più ridotte e la dimensione solidale e volontaria dell’intervento attuato dalle famiglie rende più agevole la possibilità per i ragazzi e le ragazze accolti di essere accompagnati anche dopo il compimento del diciottesimo anno d’età.


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