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Ci lamentavamo degli istituti, ci lamentavamo del clima freddo e autoritario che vigeva in quei contesti, ci lamentavamo del gran numero di bambini e ragazzi che erano costretti a stare tutto il giorno con le stesse persone a fare le stesse cose alle stesse ore. Ci lamentavamo, appunto, dell’istituzionalizzazione in quanto processo di assoggettamento di un minore ad una dimensione omogeneizzante e non centrata sui bisogni individuali dei singoli individui.

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Li abbiamo chiusi il 31 dicembre del 2006.
Fin dagli anni Settanta (in particolare in Piemonte e in Emilia Romagna) abbiamo lavorato per costruire contesti alternativi, di piccolo numero, centrati su una dimensione e un clima familiari.
Ci abbiamo messo trent’anni a chiuderli (o meglio, a sancirne la chiusura).
Ora assistiamo ad un paradosso: dover “lottare” per vincere i tentativi di chiusura di ciò che abbiamo appena faticosamente finito di realizzare.
Negli anni Novanta ho vissuto per 4 anni in una comunità, 2 in casa famiglia, 3 in un appartamento per “grandicelli”, fino all’età di 19 anni. La comunità si chiamava “comunità” ma era ancora un piccolo istituto: eravamo in trenta.
Ho fatto fatica, soprattutto i primi anni, ma poi mi sono ambientato e ho sperimentato buone relazioni con adulti affidabili e l’amicizia vera con i miei compagni, che frequento ancora oggi e con i quali stiamo costituendo un gruppo associativo a Verona, mia città natale.

{xtypo_quote_right}Che risposte dobbiamo inventarci per loro? Quali servizi? Giovani a rischio devianza, delinquenza, giovani borderline a rischio psicopatologico, ragazzi depressi, abbandonati, dimenticati nelle “terre di nessuno”, quelle di cui non ci si occupa.{/xtypo_quote_right}

Quando ho iniziato nel 2001 a lavorare come educatore per l’Opera Don Calabria a Ferrara (dopo aver passato tutte le difficoltà della neomaggiore età post comunità) ho scoperto un po’alla volta che esistevano contesti di accoglienza residenziale di piccolo numero, da 6 a 10 ospiti.
Poi ho capito che in tali contesti si potevano costruire relazioni con adulti affidabili con più facilità perché maggiore è il tempo che loro possono dedicarti.
Ho anche capito che costavano di più.
Le ho poi studiate e ho fatto una tesi comparativa tra comunità e istituto.
Ho scoperto quanto può esserci il rischio che, per facilitare il proprio lavoro di educatore, vengano utilizzate modalità istituzionali-istituzionalizzanti anche nella relazione adulto-minore in comunità. Ho pensato che, in funzione di un miglioramento della qualità degli interventi, fosse necessario promuovere una cultura relazionale dell’accoglienza in comunità e che fosse fondamentale mettere in campo costanti processi di formazione e supervisione.
Ho approfondito i miei studi, ho fatto ricerca in tal senso.
Ho creduto molto e credo ancora nella capacità e nella necessità di offrire interventi efficaci, realmente riparativi e supportivi.
Ho poi riscoperto il dolore e la fatica della conclusione del percorso residenziale, la conclusione dei rapporti con i i propri compagni di percorso e con i propri educatori. Una fatica “riscoperta” da educatore.
Non sopportavo l’idea che i ragazzi dovessero trovarsi nelle condizioni di solitudine, assenza di supporto, “paura”, rischio di vanificare i risultati positivi del percorso precedente, e così, con altri ex-ospiti come me, abbiamo fondato l’Associazione Agevolando con l’idea di fare rete per far fronte a tale rischio, con l’idea di dar voce ai ragazzi e di promuovere la loro partecipazione, con l’idea di promuovere e valorizzare il lavoro positivo fatto quotidianamente da tanti educatori attraverso le testimonianze di chi ha vissuto in comunità. Ma anche con l’obiettivo di “denunciare” eventuali situazioni di rischio per i bambini e ragazzi accolti.

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Non avrei però mai pensato di trovarmi oggi a dover lottare per dimostrare l’importanza e la necessità degli interventi di comunità. E’ un paradosso… con tutta la fatica che abbiamo fatto per chiudere gli istituti e per promuovere soluzioni profondamente in discontinuità con essi.
Non avrei mai pensato di dovermi scontrare con la disperazione di servizi sociali che ci cercano perché neomaggiorenni in gravi condizioni sociali e personali, hanno bisogno di aiuto, di un sostegno, un aggancio. Non mi riferisco però ai neomaggiorenni ex-ospiti delle comunità, ovvero a quello di cui mi occupo quotidianamente. Faccio riferimento ai neomaggiorenni e giovani-adulti “mai allontanati”, quelli che avrebbero avuto bisogno di aiuto molto tempo prima.

{xtypo_quote}Che risposte dobbiamo inventarci per loro? Quali servizi? Giovani a rischio devianza, delinquenza, giovani borderline a rischio psicopatologico, ragazzi depressi, abbandonati, dimenticati nelle “terre di nessuno”, quelle di cui non ci si occupa.
E la spesa sociale? A quanto ammonterà?{/xtypo_quote}

Siamo a fine 2013, i dati del Ministero sui minori “fuori famiglia” appena pubblicati sono riferiti alla fine del 2011. Sono già “datati”. Molte realtà stanno chiudendo, altre si stanno trasformando. Molti ci dicono che ormai sono pochissimi i bambini e gli adolescenti inseriti nelle comunità e nelle case famiglia in seguito a decreti di “allontanamento” dalla famiglia. Siamo diventati improvvisamente esperti in “prevenzione”? Sono improvvisamente aumentate le famiglie disposte ad accogliere? O c’è dell’altro? I continui attacchi incondizionati al sistema dell’accoglienza e della giustizia minorile non sono forse il tentativo di trovare un “capro espiatorio” mediaticamente funzionante per legittimare questo graduale smantellamento del lavoro quotidiano e straordinario di migliaia di educatori e gestori di contesti residenziali per minori?
La “mala-accoglienza” esiste. Lavoriamo insieme per eliminarla ma non creiamo le condizioni affinché lo diventi. Dovremo ridurci un giorno a dover rimpiangere gli istituti?


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