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Manca all’appello ancora l’ultimo treno, quello delle 23, e i profughi in stazione a Ventimiglia sono già almeno 400. Sudanesi, etiopi, eritrei, ghanesi, profughi del Togo, del Mali e della Guinea, tutti approdati sulle nostre coste nei giorni scorsi. La nostra piccola Africa ligure.
Tra loro, numerose donne anche giovanissime, stremate, stese per terra con occhi e corpi quasi inermi. Bellissime, nonostante tutto.

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Le osservi e ti domandi quanto sarà costata loro, nelle notti di prigionia in Libia, la loro bellezza acerba e indifesa, la loro solitudine, la loro determinata fragilità.
Vagano nella piazza antistante la stazione anche tantissimi ragazzini, “minori stranieri non accompagnati”, come vengono definiti col linguaggio tecnico dei giuristi. E anche dei bimbi piccoli. Nessuna traccia dei venti minori afghani che lunedì scorso erano comparsi in stazione.
Mi avvicino all’uniforme che, tra le tante presenti, annoiate e distratte, mi sembra più affabile e attenta. Gli chiedo informazioni sulla situazione. Lui è gentile e preparato. Esclude che i colleghi francesi abbiano notificato qualsiasi sorta di atto ai profughi respinti di fatto molto più che di diritto, alla frontiera di Mentone. Non crede comunque che la gendarmerie abbia usato la forza contro i migranti, basta la minaccia esplicita del loro schieramento lungo la strada. Un confine di uomini, anzi di divise.

Mentre parla s’indigna. «Queste sono persone che chiedono asilo – mi dice mentre una bimba eritrea di neppure due anni gli gira intorno – e non clandestini, come vengono chiamati dai giornalisti».
Io sgrano gli occhi, sorpresa nei miei pregiudizi da un’analisi così precisa e, visti i tempi, affatto banale. Lui si accorge del mio stupore e immediatamente aggiunge: «io porto questa divisa per difendere la democrazia nel mio paese, per tutelare lo stato di diritto. Un po’ come lei che fa l’attivista». Io veramente mi ero presentata come avvocata consulente di diverse associazioni umanitarie, ma lui da bravo “sbirro”, mi ha subito calato la maschera.

Mi siedo. Sull’aiuola, insieme ai migranti. Scambiamo con loro pochissime parole. Sono troppo stanchi, non voglio sottoporli anche al mio, seppure benevolo, interrogatorio, che si sommerebbe a quelli più implacabili dei tantissimi giornalisti presenti e armati di microfoni e telecamere.

Serena, l’operatrice della Caritas, si siede accanto a me e mi presenta alcuni richiedenti asilo conosciuti nei giorni precedenti. Mi mostrano i segni della scabbia. All’inizio fa come una S bianca sul polso, mi spiegano, e ripenso immediatamente a una frase geniale scritta su fb come risposta dissacrante contro gli idioti allarmisti che urlano all’untore: “ho scritto t’amo sulla scabbia”.
E poi prude tra le dita, mi raccontano. Nulla di terribile o inguaribile. Basta una pillola o una pomata e passa in tre giorni.
Si potesse fare lo stesso con la scabbia ben peggiore e decisamente più contagiosa e resistente del razzismo!

Mi sposto lungo la linea di passaggio con la Francia per capire, ancora una volta, come i diritti si possano sospendere con il semplice uso della forza.
Il “confine” è presidiato dalla gendarmerie. I respingimenti sono sommari, collettivi e informali. Pare non vengano notificati atti né fornite spiegazioni o tantomeno ascoltate istanze. Agli agenti francesi basta agitare il manganello e il respingimento è fatto. E non risparmia nessuno neppure donne incinte o minori. La croix rouge sta al di qua del confine, in suolo italico, come a dire che soccorsi in Francia non se ne danno perché in Francia è di fatto vietato ai profughi posare il piede. E cosi una parte di loro si assiepa sugli scogli e aspetta. Che le cose cambino, che le guardie si distraggano. che i diritti vengano ristabiliti. Ma non succede. Da giorni non succede nulla.

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E cosi i profughi fanno avanti e indietro tra la stazione e gli scogli/confine. Sei chilometri all’andata e sei al ritorno. A volte, come in queste ore domenicali, sotto l’acqua, spesso sotto il sole cocente. Di sera si torna in stazione a prendere il pasto distribuito dai volontari della Caritas e dalla Crocerossa e poi a dormire dentro la stazione o sul piazzale antistante.

A Ventimiglia infatti non è stato ancora allestito alcun rifugio sicuro, da poco sono state montate delle docce e ai pasti pensano i volontari. Nessuno pensa alla salute e neppure chiamando il 118 si è ottenuto l’intervento di personale sanitario. Domenica le autorità avrebbero dovuto decidere quale immobile destinare a rifugio di queste persone esposte, oggi, pure alle scorribande di xenofobi francesi e nostrani e a fragorosi acquazzoni, ma ancora non sembra essersi trovata un soluzione neppure provvisoria.
La stazione intanto è presidiata da un’indifferente polizia italiana e nessuno viene identificato né condotto in commissariato per l’identificazione.
Chi offre loro ascolto, vestiti ,medicine e cibo non ha bisogno di prendere le impronte per sapere chi sono, a loro basta guardarli negli occhi.
E quegli occhi ogni ora che passa si moltiplicano: lunedì sera i profughi sono circa 600 e tra loro sempre più minori e almeno venti tra neonati e bambini piccoli; intanto fortunatamente in stazione hanno aumentato gli spazi a disposizione dei profughi.

I giornali più gentili li chiamano transitanti: in realtà non transitano, non vagano, non invadono e non contagiano, semplicemente si ostinano, seppure sempre più stanchi, a esistere e a resistere, nonostante le nostre procedure ottuse e ingiuste, come il regolamento Dublino, o crudeli e fallaci, come la mancata previsione dei canali umanitari, nonostante i nostri confini e le nostre paure (prima tra tutte quella di dover scoprire che a vivere in un paese in pace non c’è alcun diritto ma solo immeritata fortuna).
Non transitano, semmai vengono loro malgrado allontanati, trasferiti, respinti.
Come succede anche oggi, che è già martedì, con la nostra polizia che decide inopinatamente di trascinare a forza un gruppo di profughi presenti al confine, verso la stazione. Un’operazione violenta nella sua assoluta insensatezza e umiliante per chi la subisce come per chi la esegue.

In stazione intanto gli instancabili volontari tornano a distribuire cibo e consigli anche ai nuovi giunti tra i quali una dozzina di giovanissimi afghani.
Respinti ma decisamente non vinti.
Ecco si, sono giorni che cerco la parola esatta per descriverli, questi giovani esuli, scacciati da tutti, esclusi dai diritti che pure si dicono inviolabili e universali, esausti di fughe, soprusi e umiliazioni, li guardi negli occhi e la parola che sale alle labbra, è invincibili, come gli eroi.


articolo pubblicato sul Corriere delle migrazioni


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