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Un mio lontano cugino alcuni anni fa, dopo aver sperimentato qualche improbabile tecnica di rilassamento ha provato ad insegnarmela.
Consapevole della deprimente impotenza che si accumula dopo giornate in studio, avendolo per qualche tempo lui stesso frequentato come mio praticante, mi suggerì di ripetere ad alta voce, prima di dormire, un numero di volte che non riesco a ricordare ma certamente dispari, la frase assolutoria: non è colpa mia.

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Ci ho provato: allevia forse, ma non risolve il senso di fallimento di fronte alle ingiustizie che si accumulano senza un vero rimedio. Ho provato altre strategie: un amico mi aveva confidato che quando le emozioni sembravano sopraffarlo lui si imponeva di "essere una una pietra" impermeabile e refrattaria a qualsiasi negatività. Inutile.

Ho provato a sussurrare tra me e me "io sono una pietra e pure incolpevole" ma senza grande successo se non quello di aggiungere al senso di impotenza quello del ridicolo. Quindi forse, a ripensarci, funzionava nella misura in cui strappava un sorriso dal minerale insensibile nel quale tentavo di tramutarmi.

Col passare degli anni, un po' per mio inesorabile invecchiamento, un po' per moltiplicarsi di motivi oggettivi di frustrazione, sento più che mai la necessità di trovare una frase che a fine giornata mi riaccordi, mi metta in armonia col creato e i bipedi che lo popolano.

Ma soprattutto avrei bisogno di parole sensate da proporre alle vittime di ingiustizie quando alle loro sofferenze pare non esserci rimedio.

Cosa posso dire ad una famiglia di sudamericani in Italia da lustri con una figlia che, per un disguido burocratico, resta senza permesso di soggiorno dopo essere diventata maggiorenne e, nonostante sia iscritta all'università, rischia di essere espulsa verso un paese del quale non ha nessuna memoria e dove non ha nessun familiare?

O al muratore che ha "adottato" un profugo perché lo ha visto rovistare nella spazzatura e si è ricordato del suo passato di migrante, lo ha accolto in casa e lo assumerebbe anche nella sua piccola ditta ma "non si può" perché se la pratica di richiesta asilo è stata rigettata anche dal Giudice il permesso di soggiorno non si può rinnovare per motivi di lavoro?

E come consolare le lacrime e a volte la rabbia di amici siriani o eritrei o nigeriani che hanno i parenti intrappolati nelle orribili prigioni libiche dove vengono sistematicamente violati e torturati senza nessuna via di fuga, neppure quella incerta del mare.

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E quando poi ti senti dire quel "ti prego", quando si inginocchiano davanti a te, quando ti chiamano mamma, come se dipendesse davvero da me raddrizzare la loro sorte. Quando ti guardano increduli mentre gli spieghi che è la legge che di fatto li condanna a subire le ingiustizie delle quali si lamentano.

E mentre provo a sintetizzare queste regole immonde, che li privano di fatto, per ottusità o crudeltà del "legislatore" di turno, dei loro diritti fondamentali, la colpa un po', su di me che le pronuncio, ricade inevitabilmente. La leggo la mia colpa negli occhi di chi mi siede di fronte e mi ascolta attonito. Ecco è in quel momento sento che vorrei gridare che non è colpa mia. Ma non ci riesco, mentirei.

Evidentemente abbiamo permesso che questo accadesse. Abbiamo lasciato che qualcuno che magari non abbiamo neppure mai votato, decidesse di lasciare torturare e morire queste sventurate creature.

Permettiamo che norme come il reato di clandestinità non vengano mai abolite, mentre altre come lo ius soli non vedano mai la luce, nonostante gli annunci.

Leggiamo silenziosamente indignati articoli e proclami di imprenditori della paura e seminatori di odio. E non urliamo, non spegniamo i televisori, non scendiamo in piazza, non scriviamo il nostro dissenso in esposti o lettere. Non ci opponiamo fattivamente.

Forse prima di andare a dormire bisognerebbe invece ripetersi (un numero dispari ma imprecisato di volte) "è anche colpa mia", per non correre il rischio di trasformarsi definitivamente in pietre.


articolo precedentemente pubblicato da Repubblica


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